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Ambiente

Ridurre le fonti fossili: una sfida politica

Il cambiamento climatico in atto va contrastato con misure incisive da realizzare in tempi rapidi e su scala globale. Allo stato attuale gli impegni dichiarati alla COP21 dai diversi Paesi intervenuti appaiono insufficienti per scongiurare il rischio di squilibri ambientali irreversibili. La politica dovrà definire strategie responsabili

di Matteo Monni
Febbraio - Marzo 2016 | Back

A valle della 21ª Conferenza sui mutamenti climatici di Parigi, tenutasi nel dicembre scorso, la sensazione diffusa è che finalmente l’umanità marcia compatta nella direzione di uno sviluppo sostenibile, pur evidenziando tra i Paesi in movimento velocità diverse. Nel contesto attuale si distinguono quelli che puntano dritti al traguardo della decarbonizzazione da quelli che fanno fatica ad immaginare una loro affermazione economica svincolata dai combustibili fossili. In sostanza le posizioni descritte rappresentano da un lato i Paesi sviluppati che hanno inquinato tanto e ora sembrano disposti a rimediare con misure drastiche, dall’altro i Paesi in via di sviluppo che in passato hanno inquinato poco e ora per crescere stanno inquinando molto. Per esempio l’attuale forza economica della Cina le consente di potersi impegnare in programmi imponenti di riduzione delle emissioni attraverso ingenti investimenti nelle FER, mentre l’India di oggi vede nello sfruttamento delle fonti fossili (60% carbone) la via più semplice da percorrere per la propria crescita economica. Per inciso, risulta che in India le emissioni procapite di CO2 siano di circa 1,6 t/anno - decisamente al di sotto delle 7,1 dei cinesi e delle 16,4 degli statunitensi – tuttavia un rapido aumento del benessere di 1,3 miliardi di indiani svincolato dalla green economy incrementerebbe inevitabilmente gli impatti ambientali dovuti alle emissioni. Per tali situazioni, una mediazione si potrebbe trovare proprio attraverso i contributi economici, previsti dall’accordo di Parigi, con cui i paesi emancipati dovrebbero «aiutare gli altri a sviluppare le rinnovabili e facilitare le comunità ad adattarsi ai cambiamenti climatici». Quindi, per dare concretezza alle importanti decisioni prese nel corso della COP 21, tutti i Paesi coinvolti dovranno proseguire i negoziati per la messa a punto di una strategia globale condivisa ed efficace. Dopo la ratifica dell’accordo, fissata per l’aprile del 2016, si terrà nel 2018 un altro summit definito “dialogo costruttivo” e nel 2023 una vera e propria revisione degli obiettivi. Le citate tappe dimostrano la consapevolezza che al momento, tra gli obiettivi da centrare e gli strumenti individuati (tutti ancora abbastanza vaghi) persistono notevoli margini di incertezza. In questo contesto la politica dovrà trovare tempestivamente soluzioni efficaci a questioni complesse dove entrano in gioco interessi contrastanti: quelli sulla cooperazione internazionale, sull’adattamento, sul trasferimento tecnologico e sugli aspetti finanziari. Sfortunatamente, in assenza di una precisa “road map” e di obiettivi a breve termine, il percorso da intraprendere sarà fortemente condizionato dall’effettiva volontà o semplicemente dalla capacità dei singoli governi (attuali e futuri), di rispettare ed eventualmente adeguare i propri INDC (Intended Nationally Determined Contributions) ovvero i contributi dichiarati a Parigi dai Paesi per contenere il riscaldamento del Pianeta. L’accordo non prevede alcuna sanzione per chi non centrerà gli obiettivi  indicati nei rispettivi INDC. Inoltre, analizzando nel complesso i target fissati nei diversi INDC, è emerso che le misure ipotizzate (rivedibili nel 2018) segnerebbero un trend di aumento della temperatura globale stimato tra i 2,7°C e i 3,7°C. In poche parole, salvo modifiche auspicabili, non si riuscirebbe a rispettare il limite dei 2°C tanto invocato. Stando alle stime fatte dall’IPCC, per contenere il riscaldamento a 2°C si dovrebbe operare un taglio massiccio delle emissioni del 40-70% entro il 2050 rispetto a quelle registrate nel 2010. Mentre per raggiungere il target di 1,5°C ci si dovrebbe spingere fino al 70-95% entro il 2050. Questi valori, pur essendo stati espressi nelle prime versioni dell’accordo, sono poi sfumati nel testo finale sostituiti da obiettivi ben più generici, ma devono rimanere dei riferimenti da non perdere di vista. Quindi, se il perno dell’accordo di Parigi sta nei tagli alle emissioni promessi dai Paesi, questi non appaiono ancora sufficienti a contenere la temperatura del Pianeta nei limiti della sostenibilità. Questo potrà avvenire solo attraverso provvedimenti coraggiosi della politica che penalizzino fortemente la produzione di energia da fonti fossili, stimolino gli investimenti in tecnologie e produzioni ecocompatibili e stanzino fondi per ricerca e innovazione.

In ambito agricolo si aprono importanti possibilità d’intervento con la definizione di protocolli colturali che, attraverso il ricorso ad una meccanizzazione moderna e altamente efficiente, limitino al massimo: la riduzione di fertilità dei suoli, l’utilizzo di concimi di sintesi e di fitofarmaci, il consumo di acqua, le perdite di prodotto, ecc. Un’agricoltura sostenibile potrà giocare un ruolo centrale, sia garantendo la funzione di stoccaggio del carbonio organico nei suoli, sia attivando le filiere di valorizzazione e conversione energetica delle biomasse (residuali o coltivate ad hoc) con cui evitare l’emissione di grandi quantità di CO2 fossile in atmosfera. In questo contesto dispiace rilevare che tra le dichiarazioni fatte dal nostro Governo a Parigi e i provvedimenti messi in atto nel concreto ci sia poca coerenza, visto che sul fronte dello sviluppo di rinnovabili, efficienza energetica ed economia circolare, non solo si sta andando a rilento, ma in alcuni casi addirittura si retrocede. Il nuovo “decreto ponte” per l’incentivazione delle FER non fotovoltaiche, oltre a contenere tagli consistenti, ha più di un anno di ritardo sulla tabella di marcia per la sua entrata in vigore. Lo stesso discorso vale per l’estenuante attesa dei provvedimenti attuativi con cui dare impulso alla produzione e immissione in rete del biometano. Tutte queste lungaggini, unite a numerose altre criticità, stanno di fatto determinando un pericoloso blocco allo sviluppo del settore delle rinnovabili. Inoltre, come se non bastasse, il Governo porta avanti una politica anacronistica per lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi nei nostri mari. Il 17 aprile prossimo, sulla spinta di 9 Regioni, gli italiani potranno decidere con un quesito referendario se le compagnie petrolifere dovranno interrompere l’attività allo scadere delle concessioni ottenute o potranno continuare ad estrarre metano e petrolio fino all’esaurimento dei giacimenti. Sarebbe opportuno, in considerazione di quanto stabilito dalla COP 21, propendere per la prima ipotesi, considerando le fonti fossili come scorte strategiche a cui attingere per esigenze eccezionali, puntando invece sulla filiera del biometano made in Italy. Tale biocarburante rinnovabile, la cui capacità produttiva stimata è di circa 8 miliardi di metri cubi annui, potrebbe in prospettiva alimentare anche i motori di macchine operatrici del settore agricolo e forestale. In conclusione, dall’Italia un primo segnale dopo gli accordi di Parigi potrebbe venire proprio da un grande escluso dai negoziati: la società civile. Tutti noi abbiamo la responsabilità di vigilare sulle attività dei Governi di tutto il mondo pretendendo che si impegnino ad operare nel massimo rispetto dell’ambiente attivando misure adeguate in tempi rapidi. Il referendum sulle “trivellazioni” sarà il prossimo banco di prova.

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