COP26 di Glasgow: una tappa in salita
La conferenza sul clima avvenuta in Scozia, pur fissando dei principi molto importanti, appare invece poco vincolante su tempi e obiettivi. Se i target diventano più ambiziosi i cronoprogrammi si allentano. La sensazione generale è che per capire come rispettare il limite di 1,5 °C, si dovrà aspettare la COP27 del prossimo anno in Egitto
Si è conclusa il 13 novembre, dopo due settimane di faticose trattative, la Conferenza sul Clima delle Nazioni Unite (COP26), che quest’anno si è tenuta a Glasgow. Per tutti coloro che speravano di assistere ad un sostanziale cambio di passo per contrastare il riscaldamento globale con l’uscita dalle fonti fossili, l’esito delle negoziazioni appare decisamente scarno rispetto alle enormi aspettative. La sensazione di delusione è diffusa e, nonostante il Segretario di Stato americano abbia affermato che “la negoziazione perfetta è quella che scontenta tutti”, si fa fatica ad appellarsi al detto “mal comune mezzo gaudio”. Infatti, visto che il male comune affligge l’intero Pianeta, c’è ben poco da gioire davanti all’amarezza di un calice mezzo vuoto. In estrema sintesi si continua a temporeggiare su tutti fronti, come se questo atteggiamento potesse cristallizzare la crisi, che invece si inasprisce inesorabilmente.
Tuttavia, se proprio si vuole intravedere qualche elemento positivo a valle di tanta fatica, questi si contano sulle dita di una mano e per ciascuno di essi non mancano le riserve.
In primo luogo la partecipazione ha interessato un gran numero di nazioni, rappresentate dai capi di governo e dalle delegazioni di ben 194 Paesi. Si registra quindi un trend in continua crescita del coinvolgimento della politica internazionale, anche se non passa certo inosservata l’assenza di alcuni tra i principali Paesi emettitori di gas serra come Cina, Russia, Brasile e Turchia.
Altro aspetto da segnalare riguarda il mantenimento del target di 1,5 °C, valore considerato secondo il Rapporto degli scienziati dell’IPCC “Special Report on Global Warming of 1.5 °C” il limite di incremento termico (rispetto al periodo preindustriale) da non sforare per evitare le conseguenze disastrose della crisi climatica. Tale obiettivo si potrà conseguire con un taglio del 45% delle emissioni di CO2 fossile entro il 2030. Si fa notare che in considerazione del fatto che ad oggi l’incremento termico è stimato di 1,1 oC, l’Europa ha già predisposto il Piano Fit to 55 per tagliare entro la fine di questo decennio il 55% delle emissioni e – secondo il Green Deal – a neutralizzarle totalmente entro il 2050.
Terzo elemento rilevante è la netta posizione di contrasto al carbone presa in Scozia, per cui – per la prima volta nelle conferenze sul clima delle Nazioni Unite – lo si cita espressamente come il combustibile più dannoso in assoluto. Purtroppo però con un intervento in volata è passato l’impegno a “intensificare gli sforzi verso la riduzione”, e non più “verso l’eliminazione”, del carbone senza sistemi di cattura dell’anidride carbonica (molto costosi e applicabili solo per una parte delle centrali). Inoltre, si cancelleranno i sussidi “inefficienti” alle fonti fossili, una misura che appare sibillina visto che non si dà indicazione chiara su cosa significhi esattamente né su chi debba decifrare l’arcano. Il cambio di rotta dal “phasing out” al “phasing down” imposto dall’India, pur provocando il disappunto della gran parte dei delegati, soddisfa invece molti altri Paesi tra cui la Cina, il Sud Africa, l’Australia, e vicino a noi la Polonia e la Serbia. Tutti fortemente dipendenti dal carbone per la generazione elettrica (60-80%) e perciò bisognosi di tempo e investimenti per ridurne l’uso.
In tale ottica ovviamente sarà necessario pianificare un ampio ed integrato ricorso alle differenti fonti rinnovabili che consentirà l’uscita dalle fossili. Per esempio l’India intende passare nell’arco di questo decennio dagli attuali 150 GW solari ed eolici a 500 GW, che potrebbero sensibilmente aumentare – in India come altrove – se si concretizzassero le strategie di supporto economico accordate dai paesi ricchi a tutti quelli in via di sviluppo. Purtroppo anche per questo aspetto siamo ancora ai blocchi di partenza. Infatti, dei complessivi 100 miliardi di dollari annui con cui si sarebbero dovuti mitigare gli effetti del climate change nelle aree più svantaggiate (per povertà e danni subiti) non si hanno notizie. Sembra, anche in questo caso, che gli impegni slitteranno al 2023, ma con la promessa di un raddoppio del budget (2025), mentre i fondi non spesi fino ad oggi potrebbero rischiare di andare in fumo.
Infine, è molto significativa anche la decisione di bloccare la deforestazione entro il 2030. Tale misura, certamente molto complessa da mettere in atto, potrebbe anche integrarsi con la decisione – presa nel G20 e riportata nel paragrafo 19 della dichiarazione finale – di piantare entro il 2030 almeno 1.000 miliardi di alberi in tutto il mondo. Questo, oltre alla cattura di CO2 atmosferica, andrebbe a rafforzare il settore della green economy potenziando i servizi ecosistemici dei territori interessati. Secondo le stime degli scienziati, dall’avvento dell’agricoltura “moderna” – ma in modo particolare dal 1700 ad oggi – abbiamo dimezzato il numero degli alberi passando 6.000 miliardi di unità a circa 3.000 miliardi. Riforestare è quindi molto importante, ma non dimentichiamoci che, negli ultimi 40 anni in Italia le foreste si sono espanse di circa 5 milioni di ettari, e la loro incuria determina gravi problemi di dissesto idrogeologico, incendi, fitopatologie e spopolamento di vaste aree!
Per il governo delle aree boscate l’innovazione tecnologica e la moderna meccanizzazione agricola e forestale possono fornire un contributo di grande valore, facilitando le operazioni di taglio, trasporto e condizionamento delle biomasse contenendo il costo degli interventi e riducendo gli impatti sugli ecosistemi. Per questo motivo, uno dei punti strategici contenuti nel Position Paper del Coordinamento FREE (Fonti Rinnovabili ed Efficienza Energetica) “Il contributo dell’energia da biomasse al processo di transizione ecologia” (realizzato da tutte le più importanti associazioni del settore grazie al coordinamento di ITABIA) afferma che in futuro occorre: “Promuovere, attraverso il potenziamento e l’innovazione della meccanizzazione, la maggiore mobilitazione possibile delle biomasse territorialmente disponibili per garantirne una utilizzazione più cospicua”.
Per concludere, mentre nel 2015 al termina della COP 21 di Parigi sembrava che l’umanità marciasse compatta in uscita dall’era delle fonti fossili, dopo Glasgow sembra che si voglia procedere in ordine sparso. Il patto sul clima appena siglato contiene una manovra per spingere i Paesi a presentare alla prossima COP27, che si terrà in Egitto nel 2022, nuovi contributi nazionali volontari (NDC) sui tagli delle emissioni. Infatti, come emerge dal punto 25 del testo, la somma di tutti gli NDC appena presentati, non produrrà nessuna riduzione delle emissioni nel 2030, ma addirittura ne fa presagire un aumento del 13,7%.
È chiaro che l’ultimo summit non si può archiviare come un successo visto che tutte le speranze sono riposte in quello successivo. Fa però ben sperare la forte sollecitazione venuta dai giovani presenti, sia a Glasgow, sia in tante altre città del mondo dove hanno marciato insieme per difendere la Terra e il loro diritto ad un futuro.