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Ambiente

Green Economy:il ruolo dell'industria per contrastare i cambiamenti climatici

Le strategie per la riduzione dei gas serra comprendono interventi di varia natura, fra i quali l'applicazione di tecnologie che ottimizzano i processi produttivi riducendo sensibilmente il consumo d'energia. Alcune indagini specifiche evidenziano come il "modello francese" risulti il più efficiente nella riduzione dei consumi energetici, ma risultati importanti sono anche quelli conseguiti da alcuni settori industriali italiani. Complessivamente l'Europa ha investito in modo cospicuo per sostenere una sempre maggiore diffusione delle energie rinnovabili

di Matteo Monni
gennaio - febbraio 2017 | Back

Poco più di un anno fa a Parigi, con la COP21 abbiamo avuto un chiaro segnale di dialogo costruttivo tra il mondo della ricerca e quello politico. L’accordo sottoscritto ha infatti spinto i governi di quasi tutto il mondo a prendere degli impegni strategici in considerazione delle evidenze scientifiche riguardanti cause, effetti e rimedi in merito ai cambiamenti climatici. Il grande sforzo sarà, quindi, quello annunciato di “mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2 gradi sopra ai livelli preindustriali”. Il fatto che si faccia esplicitamente riferimento al periodo preindustriale introduce un elemento di riflessione da tenere ben presente. Infatti, una profonda revisione in chiave sostenibile del modo di produrre e di sfruttare le risorse del pianeta è un elemento cardine per risolvere tanti problemi legati alle mutazioni del clima da effetto serra. Entra dunque in gioco un terzo importante attore, l’industria e l’innovazione tecnologica.

Tra i tanti settori coinvolti in tale dinamica quello della meccanizzazione agricola svolge un ruolo importante, sia per le innovazioni che ne riducono gli impatti negli agroecosistemi, sia per la sua versatilità nel recupero di tante tipologie di biomasse residuali da reinserire in cicli produttivi ad elevato valore ambientale. In tale quadro la green economy costituisce certamente la strada da percorrere con decisione incoraggiando quanto più possibile tutte quelle iniziative imprenditoriali che si rivolgono a questo comparto, che in Europa ha occupato una imponente fetta di mercato. In Europa la Bioeconomia ha ampiamente superato il valore di 2.000 miliardi di euro di fatturato annuo dando occupazione a più di 20 milioni di persone (Strategy for “Innovating for Sustainable Growth: A Bioeconomy for Europe”, EC, 2012) e per il 2020 si prevede una crescita di ulteriori 40 miliardi di euro e la creazione di 90.000 nuovi posti di lavoro. In Italia l’intero settore della Bioeconomia (che ricomprende l’agricoltura, la pesca, il settore alimentare e delle bevande, le foreste, l’industria della cellulosa e della carta, l’industria del tabacco, l’industria tessile delle fibre naturali, l’industria farmaceutica e della bioenergia) ha raggiunto un giro d’affari di 250 miliardi di Euro nel 2015, con circa 1,7 milioni di dipendenti.

Dall’analisi fatta dalla Fondazione Symbola dal titolo “10 verità sulla competitività italiana” appare evidente che investire nella green economy oltre a produrre benefici all’ambiente rafforza le imprese. I vantaggi riscontrati riguardano: una maggiore competitività in termini di export. Per esempio le imprese manifatturiere eco-investitrici penetrano nei mercati esteri quasi il doppio delle altre (il 46% contro il 27,7%); l’attitudine all’innovazione. Il 33% delle imprese green hanno sviluppato nuovi prodotti o nuovi servizi, contro il 18,7% delle altre imprese; la solidità economica. Nel 2015 il fatturato del 35% delle aziende orientate alla sostenibilità è cresciuto contro il 21,8% delle altre aziende; l’occupazione. Nel 2016 le imprese che hanno investito nel green hanno assunto 330 mila dipendenti, pari al 44% del totale delle assunzioni, stagionali e non stagionali, previsti nell’industria e nei servizi. Tra gli assunti nella ricerca e sviluppo, il 66% del totale è rappresentato da figure green: segno evidente del legame strettissimo fra green economy, innovazione e competitività.

Proprio per fronteggiare meglio la crisi economica ed ambientale dell’ultimo decennio l’Europa ha fortemente sostenuto lo sviluppo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica. In tale ottica i Paesi UE che si sono maggiormente distinti per quota di rinnovabili nel consumo interno lordo sono l’Italia (17,1%), la Spagna (16,2%), la Francia (14,3%), la Germania (13,8%) e il Regno Unito (7%). Inoltre, per quanto attiene allo sforzo rivolto al contenimento dei consumi energetici e delle emissioni inquinanti, il modello produttivo francese si configura come il più innovativo ed efficiente in campo ambientale con 93 tonnellate di CO2 equivalente per milione di euro prodotto (aiutata in questo dal nucleare), seguita da Italia (107), Spagna (131), Regno Unito (131) e Germania (154).

Il Regno Unito è invece il primo Paese, tra le cinque grandi economie comunitarie, per quanto riguarda il minor input energetico a parità di prodotto (anche per via di un’economia più finanziaria che manifatturiera), con 11,6 tonnellate di petrolio equivalente per milione di euro prodotto, seguito poi da Italia (14,3 tonn.), Francia (14,5), Spagna (16,8) e Germania (17,7).

Entrando nel dettaglio degli specifici comparti produttivi, l’industria italiana del legno arredo con 9 miliardi di dollari di surplus è seconda al mondo per saldo della bilancia commerciale, preceduta solamente dalla Cina (86,3 mld), ma davanti ai competitor polacchi (8,5 mld), messicani e vietnamiti (6,2 mld) e tedeschi (1,8 mld). Per questo settore l’Italia è all’avanguardia nella sostenibilità ambientale utilizzando 30 tonnellate equivalenti di petrolio (tep) per ogni milione di Euro prodotto, contro una media Ue di 68 (il Regno Unito ne consuma 39, la Francia 56, la Germania 63 e la Spagna 101). Di conseguenza sono minori anche le emissioni associate a questi cicli produttivi con 39 tonnellate di CO2 equivalente per milione di Euro, contro le 50 dei Tedeschi, le 52 dei Francesi, le 93 dei Britannici e le 124 degli Spagnoli.

Per quanto riguarda il comparto manifatturiero, a livello internazionale solo cinque Paesi al mondo possono vantare un surplus commerciale maggiore di 100 miliardi di dollari; la Cina (1.062,1 mld), la Germania (362,3 mld), la Corea del Sud (201,8 mld), il Giappone (174,7 mld) e l’Italia (103,8 mld). In particolare l’industria del machinery vede al primo posto per saldo della bilancia commerciale la Germania con 108 miliardi di dollari di surplus e l’Italia al quarto posto (59,5) separate da Cina (84,5 mld) e Giappone (69,4 mld). Tra i prodotti più esportati ci sono le macchine per l’agricoltura e il tabacco, quelle per l’industria alimentare, quelle per lavorare legno, macchine per imballaggi, ecc., apprezzate particolarmente per l’attenzione al minor consumo di energia a parità di prestazione. In Italia, nonostante le buone performances precedentemente descritte, si sente la necessità di governare meglio lo sviluppo della green economy. A tal fine, per un mese (dal 22 novembre al 23 dicembre 2016) la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha lanciato una consultazione pubblica per raccogliere osservazioni, commenti e proposte da parte degli stakeholders del Paese per la messa a punto di una strategia nazionale per la Bioeconomia adeguata al notevole potenziale di crescita di questo promettente settore. Su questi temi l’attenzione di FederUnacoma è molto alta, tant’è vero che in occasione della recente EIMA International si è approfonditamente discusso dell’integrazione delle tecnologie rinnovabili nelle filiere agricole e nelle industrie agroalimentari, descrivendo alcuni casi di successo in ambito nazionale ed estero. A partire dall’analisi dei consumi energetici più rilevanti nell’industria agroalimentare europea ed italiana sono state illustrate delle buone pratiche grazie a cui una parte o la totalità dei consumi energetici fossili sono stati sostituiti con fonti rinnovabili integrando diverse tecnologie con il ciclo produttivo agroalimentare ed ottenendo benefici energetici ed ambientali.

In conclusione la valorizzazione della biomassa può fornire un contributo estremamente importante per contrastare il cambiamento climatico. Questo non solo perché si sostituisce a prodotti e vettori energetici di origine fossile, ma anche perché consente di stoccare carbonio nei suoli agricoli e forestali ben gestiti. Come ha dichiarato Gianni Silvestrini – direttore scientifico del Kyoto Club –

«È possibile che nei prossimi anni, come già fatto per le foreste in passato, si possa a livello del processo negoziale sul clima dare un valore economico al carbonio stoccato nei suoli. In questo modo gli agricoltori potranno avere a disposizione tre tipi di risorse: i prodotti della terra, la produzione di energia tramite il biometano e il biogas e il valore economico del carbonio stoccato nel suolo».

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