Dissesto idrogeologico, un fronte aperto
I rischi legati alle alluvioni e alle esondazioni sono particolarmente alti in Italia, in parte per le caratteristiche morfologiche del Paese in parte per un deficit nelle attività di manutenzione del territorio, volte a prevenire le conseguenze del dissesto. Fondamentale il ruolo svolto dai Consorzi di Bonifica, dalle Autorità di Bacino e da molte istituzioni di ricerca; ma resta centrale l'esigenza di avere a disposizione un parco macchine specifico, che possa svolgere le necessarie manutenzioni, ed essere impiegato immediatamente in caso d'emergenza
Tutte le speranze, adesso, sono riposte in una struttura che il Governo attuale ha creato alla fine del 2014 e che ha lanciato con una vera e propria campagna pubblicitaria, come dettano le regole del marketing politico. E a sentire un po’ di addetti ai lavori, la cosiddetta “unità di missione”, ovvero Italia sicura (http://italiasicura.governo.it/site/home.html), avrebbe realmente tutte le carte in regola per fare finalmente una programmazione della difesa del suolo, sia negli spazi urbani che in ambito rurale.
Sono stati pianificati interventi per i prossimi cinque anni e per una spesa di almeno 7 miliardi di euro. La priorità è stata data alle città metropolitane, nelle quali un eventuale disastro ecologico comporterebbe anche un rischio per le vite umane, oltre alle conseguenze sul patrimonio immobiliare con relativi costi di ricostruzione. A queste aree, quindi, è destinato il primo stanziamento, 1,3 miliardi, dei quali 400 milioni solo per la città di Genova. Entro la fine dell’anno, andranno in cantiere opere per 400 milioni e il resto del piano diventerà cantieri al 90% entro metà del 2017. Poca cosa, rispetto ai 25 miliardi che sono necessari per mettere in sicurezza l’Italia, come ha detto lo stesso responsabile di Italia Sicura, Mauro Grassi, lo scorso 27 maggio nel corso del Forum Cesi sul dissesto idrogeologico.
“L’Italia si trova purtroppo ad affrontare una situazione difficile in quest’ambito non per una mancanza strutturale di fondi” ha spiegato “ma perché tali fondi, pur essendo stati stanziati, negli anni non sono stati mai spesi. La nostra struttura ha trovato circa 2,7 miliardi di euro stanziati per prevenire frane e alluvioni che non si sono mai trasformati in opere concrete, vecchi fondi pre 2009 per circa 300 milioni, circa 1,2 miliardi degli accordi di programma del 2010 con le Regioni e circa 700 milioni di fondi di accordi di programma vari o dei fondi strutturali europei. A oggi, con parte di queste somme, sono in corso d’opera oltre 1.500 interventi per 2 miliardi e 100 milioni di euro”.
In realtà, dove e come intervenire per fare prevenzione si sa da tempo, visto che piani d’intervento programmati vengono regolarmente realizzati e aggiornati da più di un’organizzazione pubblica: l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che ogni anno presenta un rapporto sul Dissesto idrogeologico in Italia; i Consorzi di bonifica, ai quali è delegata per legge la tutela delle aree alluvionali, e le Autorità di bacino, che hanno competenza su tutto il territorio rurale; a ben cercare, poi, si scopre che il Cnr ha creato il Sici, Sistema informativo delle catastrofi idrogeologiche, e l’Irpi, Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica; e c’è anche Legambiente che, nonostante sia un’associazione privata, dialoga con le istituzioni da pari a pari; senza contare le iniziative di Regioni e Comuni che in maniera disomogenea, anche in nome dell’autonomia più volte rivendicata, effettuano studi e realizzano piani d’intervento che regolarmente si scontrano con le disponibilità finanziarie o le inefficienze della pubblica amministrazione. Il più delle volte, si tratta di piani d’emergenza nati da qualche disastro, frana o alluvione, che finisce sulla cronaca nazionale dei giornali.
Il lavoro dell’Ispra consiste, in buona misura, nel mettere insieme molti di questi documenti dai quali, poi, ricava una mappa omogenea che consente di valutare le esigenze dell’intero Paese. Un’operazione che in gergo tecnico viene definita “mosaicatura”.
“Nel nostro rapporto raccogliamo le informazioni fornite da molti soggetti diversi” spiega Alessandro Trigila, responsabile per l’Ispra del progetto Iffi, monitoraggio dei fenomeni franosi “quindi da Regioni e Provincie autonome per quel che riguarda le frane e dalle Autorità di bacino per quel che riguarda l’erosione, in pratica le alluvioni. Naturalmente, abbiamo dovuto omogeneizzare tutti questi dati, visto che ciascuno li ha forniti secondo i propri criteri mentre noi abbiamo dovuto riportare tutto a criteri comuni. Quello che viene definito, appunto, mosaicatura”.
Tra le tante indicazioni, sicuramente uno stretto rapporto con le attività agricole che possono, per un verso, aggravare i rischi e le conseguenze degli eventi climatici sul territorio, per altro possono costituire il miglior presidio per la sua difesa.
“L’agricoltore tende a modellare il terreno per facilitare le sue attività di semina e di raccolta” spiega Trigila “quindi di primo acchito vorrebbe ridurre i dislivelli e facilitare le operazioni meccanizzate. Per esempio, si sono abbandonati progressivamente i terrazzamenti, che richiedono una manutenzione soprattutto per i muri a secco. Ma questo tipo di interventi ha un effetto deleterio, favorendo i fenomeni sia franosi che erosivi. E le conseguenze tornano a danno della stessa agricoltura. Allora si è passati alle colture ad alto valore aggiunto, come le olive taggiasche, che sono tipiche di terreni più irregolari e per questo richiedono un ricorso maggiore alla manodopera. Ma trattandosi di colture pregiate, il maggior costo è stato ampiamente recuperato con il maggior prezzo finale”.
Di “buone pratiche agricole” si occupano anche i Consorzi di bonifica, in tutto 150, che a loro volta effettuano interventi di manutenzione ordinaria ogni anno per una spesa complessiva di circa 600 milioni di euro, ma presentano anche un piano straordinario di prevenzione, che è sempre rimasto un libro dei sogni. L’ultimo presentato, che si riferisce al 2015, prevede interventi per 8,5 miliardi. In passato, solo alcuni interventi di quelli suggeriti dall’Anbi (www.anbi.it) l’associazione dei consorzi di bonifica, sono stati effettivamente realizzati dallo Stato.
“Il bilancio dei nostri Consorzi, ovvero i 600 milioni all’anno che spendiamo per la manutenzione ordinaria, è costituito dai contributi dei nostri associati, ovvero tutti coloro che posseggono una proprietà nel perimetro del consorzio” spiega il presidente dell’Anbi, Francesco Vincenzi “mentre il piano straordinario che mettiamo a punto partendo dalla conoscenza del territorio, riguarda interventi che necessariamente dovrebbero essere presi in carico dallo Stato. Noi, comunque, facciamo anche un’attività di formazione per suggerire agli agricoltori come si può realizzare un’attività proficua e, al tempo stesso, intervenire sulla difesa del suolo. Posso fare un esempio: basta effettuare l’aratura in senso trasversale, anziché longitudinale rispetto alla pendenza, per contribuire al contenimento dell’acqua nel terreno. Naturalmente, queste cautele valgono soprattutto sui territorio di collina e di montagna. Una volta informati su questi aspetti, gli agricoltori diventano la vera risorsa che il nostro Paese ha sul territorio. La dimostrazione è che dove manca l’agricoltura i problemi sono molto maggiori”.
La funzione dei consorzi di bonifica
“Noi dobbiamo gestire fondamentalmente i canali artificiali” spiega Vincenzi “perché il nostro è un territorio in buona parte artificiale. È stato modificato per varie ragioni, dalle necessità alimentari, quindi per potere coltivare i terreni, a quelle sanitarie, ed è il caso della malaria che è stata debellata con le opere di bonifica. Poi ci preoccupiamo della distribuzione delle risorse idriche alle aziende agricole. E qui si apre il discorso sulla qualità del cibo: dal punto di vista economico, un ettaro non irrigato produce 15 volte in meno rispetto allo stesso terreno irrigato”. Insomma, che ci siano o meno delle attività agricole, le aree rurali rappresentano un problema di gestione che l’Italia ha sottovalutato per troppo tempo. Ma all’interno delle aree urbane i problemi sembrano ancora più gravi e pesanti. Secondo il rapporto “Ecosistema rischio”, appena presentato da Legambiente, nel periodo 2010-2014 frane e alluvioni hanno provocato ben 145 vittime, e oltre 44 mila persone hanno dovuto abbandonare la propria abitazione. Eventi che hanno riguardato 625 Comuni italiani. L’indagine è stata realizzata attraverso dei questionari inviati nel 2015 agli oltre 8 mila Comuni italiani. Ma solo 1.444 hanno risposto e di questi ne sono stati utilizzati 1.399 perché gli altri 45 risultavano incompleti. Da questa base di dati, comunque molto parziale, risulta che il pericolo di frane o alluvioni riguarda ben 7 milioni di cittadini distribuiti in 1.075 Comuni. Nel 51% dei casi, nelle aree a rischio sorgono impianti industriali mentre nel 18% dei casi il rischio riguarda anche strutture sensibili, come scuole e ospedali. La situazione, così com’è, suggerisce che l’intervento più risolutivo sia quello di trasferire gli insediamenti costruiti in aree a rischio e ricostruirli in aree sicure. Niente che possa essere pianificato e realizzato in breve tempo e a basso costo. A maggior ragione acquista una funzione fondamentale l’attività di manutenzione ordinaria del territorio, che può essere effettuata con l’impiego di macchine ed attrezzature specifiche. L’industria della meccanica per l’agricoltura, il movimento terra e la manutenzione del verde offre una scelta molto ampia di tecnologie - dalle trattrici appositamente attrezzate agli escavatori, dai sistemi per il taglio, il trasporto e il trattamento del legname nelle aree boschive alle attrezzature per la manutenzione dei fossi e dei canali, fino a tutti gli “implements” che possono contribuire ad una efficiente manutenzione – che rappresentano il primo presidio per ridurre i rischi del dissesto idrogeologico. L’auspicio di FederUnacoma, la federazione che rappresenta le industrie meccaniche di settore, è che nei piani d’intervento per la tutela e la messa in sicurezza del territorio possano essere inserite specifiche voci per incentivare l’acquisizione, anche da parte delle amministrazioni comunali e degli enti locali, di mezzi e tecnologie utili nell’opera di prevenzione e negli interventi d’emergenza.