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Attualità

Siccità: il riscaldamento globale verso nuovi record

L’incremento delle temperature medie globali è in atto dal 1976 con anomalie crescenti. Il trend interessa anche l’Italia, che si trova in una regione particolarmente fragile dal punto di vista climatico, quale il Mediterraneo. Nella Penisola l’incremento delle temperature si accompagna a un deficit pluviometrico

di Giovanni M. Losavio
aprile - maggio 2020 | Back

Nel 1976 la nazionale di calcio di uno Stato che non esiste più, la Cecoslovacchia, vinceva i campionati europei di calcio mentre un altro Paese dissolto, l’URSS, si aggiudicava il medagliere olimpico a Montreal. Intanto in California, a Cupertino, nasceva l’azienda che avrebbe rivoluzionato l’informatica e le telecomunicazioni, mentre in Italia Tina Anselmi era la prima donna a diventare ministro. Ma il 1976 sale agli onori delle cronache anche perché è stato l’ultimo anno a registrare una flessione della temperatura media globale. Da allora – come emerge dalle serie storiche del National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia governativa USA che monitora i fenomeni climatici – è stato un crescendo delle temperature ininterrotto, con scarti positivi sempre più ampi. Il riscaldamento del pianeta è diventato ancora più evidente alla fine degli anni ’90 quando l’incremento medio delle temperature si è stabilmente attestato su valori prossimi a un grado. Ma è negli anni Duemila che il global warming registra un’impennata segnando, nel 2016, l’anno più caldo di sempre (sulle terre emerse +1,55° rispetto alla media del ventesimo secolo) seguito a stretto giro dal torrido 2019 (+1,43°). Se la comunità scientifica si divide sulle cause del cambiamento climatico – la maggior parte degli scienziati sostiene l’origine antropica del riscaldamento mentre una parte minoritaria la contesta – il fatto in sé, cioè l’incremento repentino e generalizzato delle temperature, è ormai un dato acquisito. Le serie storiche del NOAA indicano una chiara linea di tendenza. Dal 1880 fino al 1937 prevale infatti una leggera anomalia negativa anno su anno intorno al mezzo grado. Tra la fine degli anni ’30 e metà degli anni ’70 si alternano anomalie positive e negative, mai superiori agli 0,5° C. Poi, però, a partire dal 1976 le temperature medie puntano decisamente verso l’alto, con uno scostamento positivo che dal 1998 si attesta intorno a un grado, un grado e mezzo. L’Italia non fa eccezione. Anche nel caso italiano l’andamento delle temperature medie anno su anno, dal 1800 ad oggi, mostra consistenti anomalie a partire dal 1980, con una brusca impennata che inizia nella seconda metà degli anni ’90 e che prosegue tuttora. Per l’Italia – segnala l’Istituto di Scienze del Clima e dell’Atmosfera (ISAC) del CNR – il 2019 è stato il quarto anno più caldo di sempre (+0,96 gradi dalla media 1981-2010) ma il primato spetta al 2018 con un +1,17°. I primi quattro mesi del 2020 proseguono in questa direzione. Trainata da un inverno eccezionalmente mite, tra gennaio e aprile l’anomalia è salita a +1,4°. Se si prosegue con questo ritmo, il 2020 potrebbe presto battere il 2018. Insomma, nella Penisola gli effetti del riscaldamento globale sono particolarmente evidenti, anche perché l’Italia si trova in una regione ad alto rischio climatico. «L’area del Mediterraneo, a causa di effetti naturali e antropici combinati, soffre di un’alta vulnerabilità in cui il climate change avrà rilevanti conseguenze», ha spiegato Giorgio Budillon, ordinario di Oceanografia e fisica dell’atmosfera alla Parthenope di Napoli, commentando la pubblicazione di un rapporto curato dell’Istituto di studi sul Mediterraneo del Cnr. «L’alternarsi di maggiori precipitazioni e lunghi periodi di siccità – ha aggiunto Budillon – il rischio idro-geologico e la scarsità d’acqua aumenteranno con conseguenze negative notevoli sul settore agricolo». La siccità infatti è l’altra faccia della medaglia del global warming. In questo caso le serie storiche dell’ISAC-CNR descrivono una progressiva diminuzione delle precipitazioni medie annuali con picchi negativi che dagli anni ’90 tendono a concentrarsi nei mesi invernali. Insomma piove di meno, e ciò accade soprattutto d’inverno. La stagione invernale 2020, ad esempio, si è chiusa su tutto il territorio nazionale con un deficit idrico del 50% rispetto alla media 1981-2010. Peraltro, nella Penisola il trend siccitoso è in atto già da diversi anni. Al riguardo l’Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione Ambientale (ISPRA), prendendo come riferimento la media pluviometrica 1961-1990, indica come gli ultimi 35 anni siano stati caratterizzati da una netta prevalenza delle anomalie negative su quelle positive (24 eventi contro 10, un solo evento in media). Anomalie, queste, che in taluni casi hanno fatto registrare deficit superiori al 20%. Benché significativo, il dato delle precipitazioni cumulate ha un grosso limite perché non fornisce alcuna informazione in merito alla distribuzione delle piogge. La concentrazione degli apporti pluviometrici su determinate aree del Paese e in determinati periodi dell’anno, quando seguita da pause più o meno lunghe, concorre infatti a determinare per quelle zone condizioni siccitose, anche se il dato cumulato dovesse risultare in qualche modo in linea con le medie. «Le precipitazioni […] presentano delle oscillazioni nella quantità di pioggia annua caduta al suolo, che costituisce l’aspetto più preoccupante del fenomeno, in quanto – si legge in un rapporto dell’ISTAT datato 2010 – in ogni territorio è necessario gestire anni di forte piovosità e anni di forte carenza di acqua, con conseguente aumento del rischio frane e alluvioni nel primo caso e di carenza idrica e siccità nel secondo». L’agricoltura e la meccanizzazione devono dunque affrontare una doppia sfida. Da un lato adattare le pratiche colturali al global warming, dall’altro ottimizzare lo sfruttamento di ogni singola goccia d’acqua, perché l’”oro blu” potrebbe presto diventare una risorsa rara.

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