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Giardinaggio

Residui del verde urbano, una preziosa risorsa

I sottoprodotti derivanti dalla manutenzione di parchi e giardini delle città italiane possono dar luogo a ingenti quantitativi di biomassa, in grado di soddisfare i fabbisogni energetici per decine di migliaia di famiglie. Il susseguirsi di normative non coerenti fra loro, che hanno attribuito nel tempo a questi residui differenti definizioni e quindi differenti procedure di gestione impedisce un efficace impiego degli stessi come materia prima combustibile

di Matteo Monni
aprile - maggio 2018 | Back

Sembra proprio che le cose semplici non esistano o meglio che per liberarle dalla loro effettiva complessità occorra molta sapienza. Un caso esemplare ci viene dalla vicenda del verde urbano. Immaginando un parco monumentale, un giardino o un viale alberato dei tanti che arredano le nostre città, a tutto ci verrebbe di pensare fuorché ad una “discarica”. Dalla manutenzione di questi luoghi derivano invece, ogni anno, circa due milioni di tonnellate di residui tra sfalci e potature che, se non intercettate per impieghi virtuosi, possono finire in discarica con gravi ripercussioni in termini di costi economici ed ambientali.

Per inciso si rammenta che ad oggi in Italia, secondo la normativa vigente, un flusso di materia in uscita da un processo produttivo può essere gestito come rifiuto, cioè come “qualsiasi sostanza o oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi” (direttiva 2008/98/Ce del 19 novembre 2008); o come sottoprodotto, qualora sia certo che la sostanza sarà utilizzata, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale, in un altro processo produttivo, e che l’utilizzo soddisfi tutti i requisiti pertinenti riguardanti la protezione della salute e dell’ambiente (DLgs 152/2006, art. 184 bis comma 1).

Questo dualismo interpretativo non ha chiarito quale fosse la destinazione d’uso lecita per le biomasse derivanti dalle operazioni di manutenzione del verde urbano creando non pochi disagi in tante realtà. In estrema sintesi, se tali biomasse dovessero essere considerate un rifiuto il loro impiego ottimale sarebbe quello del compostaggio, mentre qualora fossero “nobilitate” al rango di sottoprodotti, potrebbero anche avere altri sbocchi tra cui alimentare degli impianti per la produzione di energia come risorsa rinnovabile. Entrambe le soluzioni sarebbero socialmente ed ambientalmente valide, anche se da un punto di vista economico non è banale individuare quale tra le due sia più vantaggiosa per le casse dei Comuni italiani. Ed è anche sul piano economico che si anima il dibattito tra gli stakeholders del compostaggio e quelli delle FER. Per i primi l’esclusione del verde urbano dal novero dei rifiuti produrrebbe un drastico calo delle percentuali di raccolta differenziata dei Comuni, allontanando di molto i target di raccolta fissati dalla normativa nazionale. Inoltre, se le potature si potessero vendere piuttosto che smaltire, anche i compostatori si troverebbero a dover pagare per acquistarle sul mercato – invece di essere pagati per riceverle – e di conseguenza potrebbe aumentare il costo di conferimento agli impianti. Il settore della bioenergia, invece, sostiene che l’uscita delle potature urbane dalla sfera dei rifiuti porterà guadagni ai Comuni che potrebbero vendere agli impianti la loro biomassa ad un prezzo di circa 20 euro a tonnellata, mentre inviare a compostaggio una tonnellata di “verde urbano” ha un costo di circa 100 euro. Tali aspetti devono aver disorientato non poco il decisore politico, visto che negli ultimi dieci anni abbiamo assistito ad un fenomenale susseguirsi di norme contraddittorie con cui la natura giuridica (rifiuti o sottoprodotti) dei residui in questione è già mutata per ben quattro volte.

Allo stato attuale, sfalci e potature del verde urbano sono esclusi dal regime dei rifiuti e possono essere impiegati come combustibili rinnovabili nel settore della bioenergia. Ma la vicenda non è affatto chiusa poiché si è aperto un nuovo capitolo con l’eliminazione durante l’approvazione della Legge europea 2018 delle ultime modifiche introdotte nel 2016 con il “Collegato agricoltura” e non conformi alla Direttiva sui rifiuti. Il rischio dell’attivazione di una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea rimette tutto in discussione. Come sempre accade, il frequente mutare del quadro normativo di riferimento produce difficoltà contingenti ad aziende ed operatori coinvolti. Per esempio, la legge 129/2010, che consentiva l’acquisizione delle potature del verde urbano per un impiego energetico, aveva portato alla definizione di contratti di approvvigionamento con le aziende municipalizzate locali per il ritiro e la selezione della biomassa. Si erano in tal modo attivati dei sistemi virtuosi, in particolare per gli enti pubblici, per cui ai costi di smaltimento si sostituiva il ricavato della vendita della biomassa, con concreti vantaggi economici a favore della collettività. La modifica di classificazione della biomassa proveniente da verde pubblico e privato ha determinato la scissione di contratti di fornitura e il rialzo dei costi degli altri combustibili legnosi, con gravi ripercussioni per chi aveva pianificato l’utilizzo di tale risorsa. Infine, si fa presente che le caratteristiche chimico-fisiche del legname derivante dagli interventi di manutenzione del verde urbano sono in tutto e per tutto analoghe a quelle delle biomasse forestali. Il Comune di Roma, per esempio, gestisce circa 150.000 alberi posti lungo la rete stradale urbana, e di questi almeno 20.000 ogni anno sono oggetto di interventi ordinari di potatura. La biomassa derivante da questi interventi potrebbe ammontare a poco meno di 10.000 tonnellate annue di legname, che potrebbero soddisfare il fabbisogno termico di circa 600 famiglie invece di gravare sul sistema di gestione dei rifiuti già fortemente congestionato e prossimo al collasso.


Il “ping pong” normativo

Dal gennaio 2008 sino ad agosto 2010 (D.Lgs 4/2008), i sottoprodotti derivanti dalla manutenzione del verde pubblico e privato sono stati considerati “rifiuti urbani” e non potevano quindi essere impiegati per la conversione energetica in semplici impianti termoelettrici o di teleriscaldamento, che però possono utilizzare, come sottoprodotti, i materiali vegetali provenienti da attività agricole.

A partire dal 19 agosto 2010 (legge 13 agosto 2010, n. 129), la definizione di sottoprodotto viene ampliata fino a comprendere: “Materiali fecali e vegetali provenienti da sfalci e potature di manutenzione del verde pubblico e privato, o da attività agricole, utilizzati nelle attività agricole anche fuori dal luogo di produzione, ovvero ceduti a terzi, o utilizzati in impianti aziendali o interaziendali”.

Dal 25 dicembre 2010 (D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205 “Disposizioni di attuazione della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo relativa ai rifiuti”), si torna indietro e, inspiegabilmente, non si parla più di sottoprodotti, mentre il materiale proveniente dalla manutenzione del verde pubblico urbano e privato rientra ancora una volta nella definizione di “rifiuto”.

Dal 25 agosto 2016 (Collegato Agricoltura - Legge 28 luglio n. 1154) con l’articolo 41 del provvedimento viene modificato il Codice dell’ambiente (Dlgs 152/2006) fissando tra le materie escluse dalla disciplina dei rifiuti “ …gli sfalci e le potature da aree verdi come giardini, parchi e cimiteri”.

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