Aratri fenestrati, l'evoluzione di un attrezzo basilare
La storia millenaria dell'aratro non è ancora finita. La sua evoluzione ha portato alla comparsa dei modelli con versoio fenestrato, per conciliare prestazioni operative e riduzione della richiesta energetica
Nonostante a livello mondiale le moderne tecniche di agricoltura conservativa ne abbiamo ridimensionato l’impiego, specie nell’area mediterranea l’aratro rimane l’attrezzatura principale per la lavorazione primaria del terreno.
“Lavorare il terreno costa fatica”: non è soltanto un modo di dire ben conosciuto nell’ambito agreste, ma anche una constatazione reale, che diviene oltremodo evidente quando si considera la richiesta energetica (ovvero i consumi di combustibile) necessari per la preparazione del letto di semina in minima lavorazione rispetto alla classica accoppiata aratura+erpicatura. Affinata nel corso dei millenni, l’aratura ha conosciuto una progressiva diffusione nell’ultimo secolo, grazie soprattutto alla disponibilità di trattori sempre più potenti e ad elevata capacità di trazione, in modo da poter lavorare efficacemente il terreno a profondità sempre maggiori. Rispetto alle ormai note tecniche di lavorazione del terreno in regime di agricoltura conservativa, l’aratura comporta senza dubbio una maggiore esigenza in termini energetici. Peraltro, oltre a dissodare e frammentare il terreno in previsione del successivo affinamento (spesso dopo un opportuno periodo di esposizione dello strato lavorato agli agenti atmosferici), l’aratura provvede anche ad incorporare in profondità i residui colturali ed eventuali concimazioni in copertura, e risulta oltremodo utile per ridurre drasticamente la presenza di infestanti sia come rizomi che semi, che vengono traslocati negli strati profondi del suolo, dal quale poi non riescono ad emergere. In effetti, nella maggior parte delle aziende agricole ormai convertitesi stabilmente all’agricoltura conservativa (in regime di zero, strip o minimum tillage), di tanto in tanto si fa ancora ricorso all’aratura, per risolvere problemi di resistenza della flora infestante ai più comuni diserbanti.
Un po’ di storia
L’aratro ha una storia plurimillenaria, ma è a partire dal 6000 a.C. che, con l’addomesticamento dei buoi cominciò ad essere disponibile una forza di trazione sufficiente per permettere anche un certo rivoltamento del terreno, utile a portare in superficie elementi nutritivi e quindi favorire la crescita del frumento anche nelle zone meno fertili. In epoca medievale l’aratro si evolve e diventa “pesante”, con vomere in ferro, di tipo asimmetrico, montato su ruote e in grado di lavorare il terreno a profondità significative. Nella prima metà del Settecento, in Inghilterra, compaiono invece i primi aratri con versoio in ferro, passaggio che prelude all’inizio della produzione industriale di questa attrezzatura. Famoso l’aratro in acciaio da fusione, sviluppato intorno al 1830 da un fabbro americano dal nome oggi arcinoto, ovvero John Deere. L’evoluzione fino a giorni nostri è caratterizzata sostanzialmente solo dall’aumento delle prestazioni, soprattutto per ciò che concerne la capacità di lavoro. La storia millenaria dell’aratro non può infatti essere dimenticata: ancora oggi, il telaio portante che supporta i vari corpi lavoranti dell’aratro è la “bure”, a memoria di quando erano i buoi a trainare questo attrezzo.
La tecnica
Il taglio della sezione di terreno lavorata avviene grazie ad una lama orizzontale, il vòmere, che è collegata inferiormente al versoio (o orecchio), ovvero l’elemento che poi la rivolta, tipicamente con un angolo di 135°. Viceversa, il taglio verticale è eseguito dal coltro (o coltello), coadiuvato nei terreni compatti da un avanvomere (o scalpello), per favorire la penetrazione dell’aratro nel terreno. Mentre per i componenti che eseguono il taglio l’evoluzione tecnica ha da sempre considerato sostanzialmente il miglioramento della resistenza all’usura, per il versoio i cambiamenti sono stati notevoli; oggi il mercato offre infatti versoi con caratteristiche molto differenti in termini prestazionali. Normalmente, il versoio viene realizzato con 3 strati sovrapposti di acciaio: quelli esterni (superiore e inferiore) sono molto duri e poco flessibili, ma resistenti all’usura, mentre quello interno è caratterizzato da una significativa elasticità, essendo costruito con acciaio molto più dolce. Dal punto di vista morfologico, il versoio ha una superficie curva continua, con il lato concavo orientato verso la direzione di avanzamento, che termina con un’inclinazione trasversale di 35-45°, allo scopo di rivoltare adeguatamente la sezione di terreno tagliata dal vomere e dal coltro, grazie alla reazione dinamica del movimento dell’aratro rispetto al terreno. Il rapporto fra la larghezza della fetta lavorata e la profondità di aratura varia in genere tra 1 e 1,6, con i valori più bassi riscontrabili per le arature più profonde.
Per ottimizzare l’efficacia in termini di rivoltamento e disgregazione delle zolle, la conformazione della superficie curva dovrebbe essere continuamente adattata alle caratteristiche del suolo lavorato e alla velocità di avanzamento. Di fatto quasi tutti i costruttori si sono orientati sulla costruzione di tre tipologie standard di versoio, ovvero elicoidale, cilindrico e iperbolico. In Italia, la forma più popolare è quella elicoidale, per la sua minore “aggressività” nel ribaltamento della fetta, anche se in tal modo si ottiene una minor efficienza di disgregazione delle zolle. Pur non esistendo una distinzione netta tra le varie tipologie, solitamente la lunghezza del versoio elicoidale è pari a 3-3,5 volte la larghezza del taglio, mentre per quello cilindrico, che provoca una disgregazione molto più energica, tale valore si riduce a 1,5-2,5 volte, comportando di conseguenza più un rimescolamento dello strato lavorato, piuttosto che un vero e proprio ribaltamento.
L’evoluzione dei materiali
Poiché è comunque l’usura il “nemico” principale dell’aratro, la ricerca si è concentrata sulla messa a punto di materiali innovativi, sia per il corpo che per i rivestimenti superficiali del versoio, anche per ridurre l’attrito con il terreno dissodato. Da questo punto di vista, i materiali plastici e il teflon hanno fornito risultati interessanti, soprattutto per la diminuzione degli sforzi di trazione, ma contestualmente si è evidenziata qualche difficoltà in termini di affidabilità nel tempo.
I versoi fenestrati
Sempre per diminuire la richiesta di forza di trazione, da parecchi anni hanno fatto la loro comparsa sul mercato i versoi fenestrati (o a strisce), realizzati da una serie di robuste barre affiancate in parallelo e opportunamente distanziate, a ricreare la forma e l’estensione di quelli monolitici.
A parità di qualità e di spessore dell’acciaio, i versoi fenestrati si caratterizzano per una rigidezza strutturale inferiore, ma comportano un attrito ridotto del 20% rispetto a quelli tradizionali, con una sforzo di trazione proporzionalmente inferiore. Peraltro, la discontinuità delle fenestrature aumenta leggermente anche la disgregazione delle zolle prodotte, con un certo risparmio energetico nelle successive operazioni di affinamento. I primi tipi di versoio fenestrato non lavoravano bene nei terreni ricchi di scheletro, perché sassi e pietre si incastravano nelle fenestrature, incrementando gli attriti del corpo lavorante; il problema è stato risolto nei modelli più recenti, che sono dotati di fenestrature divergenti verso la parte posteriore, favorendo in tal modo lo scivolamento e lo scarico delle pietre verso la parte posteriore dell’elemento.
Un ulteriore vantaggio del versoio fenestrato rispetto a quelli tradizionali è la sua leggerezza, che comporta notevoli vantaggi soprattutto nel trasporto su strada.
Il mercato
In Italia sono attive molte piccole-medie aziende specializzate nella costruzione di aratri, tra cui anche alcune eccellenze assolute, con una produzione destinata per oltre il 90% all’esportazione. Non mancano peraltro piccole realtà artigianali, di fatto le uniche in grado di mettere a punto prodotti particolari, in grado di rispondere alle esigenze di lavorazione di terreni molto tenaci, difficili da lavorare.