Africa: in forte crescita gli investimenti esteri
Nello scenario economico mondiale, l'Africa – in particolare i Paesi della fascia subsahariana – rappresenta una realtà straordinariamente dinamica e promettente. L'agricoltura costituisce il driver dello sviluppo economico africano, ma necessita di infrastrutture e tecnologie. Il processo di sviluppo sta conoscendo un'accelerazione per effetto dei crescenti investimenti esteri diretti, che tuttavia non sono più appannaggio dei partner tradizionali di Europa e Stati Uniti, ma dei paesi emergenti dell'area asiatica e dell'America Latina
È ormai chiaro che per l'Africa è l'agricoltura il vero driver per uno sviluppo duraturo e stabile. L'Africa sub sahariana, in particolare, vede oltre il 60% della forza lavoro impegnata in agricoltura, la quale contribuisce per il 50% al totale del reddito prodotto. E' evidente quindi che l'investimento in agricoltura rappresenti non solo un driver per lo sviluppo ma anche una grossa opportunità di business se, come stima l'International Finance Corporation (Gruppo World Bank), l'agricoltura di questo continente entro il 2030 dovrebbe essere in grado di sviluppare 1 trilione di dollari di nuove attività.
Il problema è certamente tecnologico ma anche e soprattutto di inserimento del settore nella "supply chain" globale: il primo passo è quindi quello di avvicinare e connettere i produttori al mercato. Si tratta di una sfida che riguarda non solo le tecnologie e la logistica ma anche i servizi per l'agrobusiness. Il tema della certificazione dei prodotti, ad esempio, è ormai un argomento all'ordine del giorno. Riguarda sia le grandi commodities come cacao e caffè - si può portare l'esempio degli interventi in Uganda, Tanzania e Kenya per la certificazione volontaria del caffè (sostenuti con il supporto di Banca Mondiale e operatori privati internazionali) – che prodotti di consumo. In questo caso si può citare lo schema di certificazione processo/prodotto nel distretto vitivinicolo sudafricano di Du Toitskloof (regione Western Cape). In Costa d'Avorio la certificazione volontaria sulla produzione di cacao ha avuto effetti straordinari: una produzione per ettaro di 576 kg contro i 334 kg delle produzioni non certificate, ed un ricavo per ettaro di 403 dollari contro i 113 delle aziende agricole non certificate.
Altro tema strategico è quello delle infrastrutture, a cominciare dallo conservazione dei prodotti, su cui ugualmente esiste un forte impegno degli Organismi Internazionali (Banca Mondiale in testa). Fra i progetti realizzati con fondi IFC molto interessante ed impegnativa è stata la realizzazione di un sistema di raccolta e stoccaggio del tè in Kenya, che serve oltre 500 mila produttori locali. Altro settore chiave sono gli interventi per estendere i terreni irrigui, l'altro grosso gap che l'agricoltura africana deve colmare. Tra l'altro in un contesto più complesso in quanto la profonda biodiversità delle aree africane non è paragonabile, ad esempio, al sud est asiatico dove la sola coltivazione del riso può estendersi per milioni di ettari.
Infine la carenza di infrastrutture fa assumere un ruolo fondamentale ai servizi e ai prodotti di ICT e di telefonia mobile. Infatti potranno essere proprio loro lo strumento per facilitare l'inserimento nella supply chain delle aziende agricole, localizzate spesso in aree difficilmente raggiungibili. Le nuove tecnologie sono essenziali sia per la comunicazione in tempo reale (ad esempio sui fenomeni metereologici) e sia in termini di accesso ai servizi (quelli di pagamento o finanziari ad esempio).
In tutti questi ambiti nuovi players stanno acquisendo un ruolo significativo nel continente. Innanzitutto la grande distribuzione, entrata in forze nell'Africa sub sahariana (pensiamo a Unilever o a Massmart). Le iniziative di questi grandi operatori globali sono molte ed estremamente efficaci. Ad esempio le multinazionali della GDO stanno investendo per lo sviluppo di produzioni locali (come l'olio di palma oppure il sorbitolo) necessari a molte produzioni anche del settore personal care (dentifrici) ed attualmente importati dall'Asia con grave dispendio di risorse economiche e con evidenti condizionamenti al ciclo produttivo.
Ma ciò che colpisce maggiormente, e che le nostre imprese devono monitorare con attenzione, è il ruolo che in Africa stanno svolgendo nel settore agroindustriale altri Paesi emergenti. Una fotografia aggiornata della situazione ci è stata offerta dalla presentazione organizzata da FT Live a Londra lo scorso dicembre dell'ultimo rapporto su investimenti globali e rischio politico curato dalla Multilateral Investment Guarantee della World Bank.
Su circa 1,5 trilioni di dollari di investimenti diretti esteri, la quota indirizzata verso i paesi a basso reddito è arrivata al livello record del 41%. In termini assoluti sono nel 2013, anno di rilevazione, ben 617 miliardi di dollari. I mercati che nel 2013 hanno registrato i più elevati tassi di crescita degli IDE (quindi i paesi di destinazione più appetibili) sono stati l'Asia del Sud e l'Africa subsahariana dove gli investimenti esteri sono aumentati rispettivamente del 21% e del 19%. Europa Orientale e resto dell'Asia hanno invece sofferto maggiormente per il ciclo negativo nella UE e per il rallentamento dell'economia cinese.
Decisamente significativo è stato l'incremento degli IDE "South-South": le iniziative cioè che vedono coinvolti sia come investitori che come mercati di insediamento paesi a basso reddito procapite. Una volta ricordato che Cina , India e Brasile continuano a fare la parte del leone fra gli "emerging markets" destinatari di IDE, ospitandone il 50% di quelli realizzati dal 2000, possiamo constatare come questi stessi paesi siano in prima linea anche come investitori.
I 164 miliardi di dollari di IDE realizzati da paesi developing hanno rappresentato, nell'anno 2012, il 12% del totale. Quindi al tavolo degli investitori globali sono ormai seduti autorevolmente molti paesi emergenti. In sostanza a dispetto di un rallentamento anche delle loro economie questi Paesi hanno mantenuto ed incrementato la loro azione di espansione sui mercati esteri. Brasile , Cina ed India hanno realizzato solo nel 2012 quasi la metà di questi IDE, ben 68 miliardi di dollari. Tra l'altro va tenuto conto che nell'indagine World Bank, stante il parametro del reddito procapite annuo massimo, non rientrano nel concetto di developing countries Paesi come la Russia (che da sola ha realizzato IDE per 51 miliardi di dollari) oppure il Cile e l'Uruguay, che comunque sono investitori molto dinamici fra gli emergenti. Per quanto riguarda le tendenze più recenti emerse, il rapporto MIGA evidenzia lo spostamento della Cina dall'Africa verso l'America Latina, area dove gli investimenti cinesi sono cresciuti prepotentemente. Altro aspetto interessante da segnalare è l'attivismo di paesi che si collocano comunque sulla fascia alta di reddito pro-capite e si sono dimostrati attivi promotori di IDE in mercati emergenti. I casi più interessanti sono quelli di Malaysia e Messico.
Infine è la qualità dei soggetti promotori dell'investimento a determinare una ulteriore novità. Fra i paesi emergenti i soggetti investitori sono spesso delle aziende riconducibili al controllo statale, le cosiddette State Owned Enterprises (SOE). In parte questa vitalità è determinata dalla presenza di Fondi Sovrani molto liquidi in Paesi developing dalle grandi risorse naturali o energetiche. Il rapporto MIGA evidenzia anche come gli investitori south based pur avendo una percezione dei rischi che è simile agli investitori di altri Paesi, sembrano meno sensibili al rischio politico e maggiormente preoccupati dell'instabilità economica o dell'accesso ai finanziamenti. Questo può essere spiegato sia da una diversa consapevolezza del rischio e sia da una maggiore esperienza diretta che li pone in condizioni di minore preoccupazione proprio nell'investire in altri mercati developing. La conclusione del rapporto su questo punto è abbastanza netta. Si prevede una crescita nei prossimi 3 anni degli IDE Sud-Sud.
Paesi come Brasile, Cina, Argentina, Tailandia, Indonesia o Cile, che hanno mostrato notevoli performance nell'export alimentare e che hanno saputo anche destinare una forte quota di risorse per ricerca e sviluppo all'agricoltura, si candidano autorevolmente per trasferire la loro esperienza in Africa. Sembrano essere proprio loro i partners maggiormente impegnati ad elevare la quota di prodotto agricolo lavorato (processed food) direttamente in territorio africano.
Il Brasile ad esempio (esportatore leader di caffè, zucchero, soia, carni; secondo esportatore di pollame e quarto per le carni di maiale) ha avviato un ampio programma di investimenti (e di cooperazione tecnica) nel sud dell'Africa: nel settore del cotone in Benin, Burkina Faso e Mali, nella coltivazione di riso e soya in Mozambico, e naturalmente nel campo della meccanizzazione agricola. Il Brasile con un rapporto di 1 trattore per ogni 3000 abitanti vuole certamente intervenire in un continente dove il rapporto è 1 a 70.000. O per dirla con i dati dell'UNIDO i 13 trattori ogni 100 km² di aree africane coltivabili sono davvero pochi rispetto ai 129 del Sud Est asiatico oppure ai 200 medi a livello mondiale.
La Cina è l'altro grosso investitore South South impegnato nel settore agricolo. Molto si discute della corsa cinese all'acquisizione di materie prime, anche in Africa, ma in questo continente sono almeno 10 anni che opera la cooperazione tecnica ed economica cinese. I programmi d'investimento e cooperazione spaziano dal settore cotoniero in Egitto al tabacco in Zimbabwe; dalla produzione di sisal (fibra che si ricava dall'agave)in Tanzania alla coltivazione della frutta nigeriana. In qualche caso gli stessi governi africani hanno voluto favorire l'insediamento di investimenti settoriali come le agro-industry investment zones egiziane.
Se come abbiamo visto le Imprese agroindustriali e gli investitori provenienti da India , Brasile, Cina ed Emirati sono particolarmente attivi in Africa, fra i mercati locali che gli ultimi dati evidenziano come i più appetibili per investimenti agroindustriali si collocano Zambia, Sud Africa e Namibia. Ma immediatamente dietro troviamo Angola, Nigeria e Ghana. Infine può essere utile osservare che un'inchiesta fra autorevoli istituzioni finanziarie africane ha rivelato che il principale elemento di rischio (50%) per i piccoli produttori africani è la variabilità dei tassi d'interesse (finanziandosi di norma in valuta locale sul mercato domestico per durate di 5/10 anni), mentre a differenza forse della opinione comune gli eventi atmosferici pesano in termini di rischio sull'attività economica per il 15%.
In conclusione le ragioni che favoriscono gli IDE in agricoltura, anche quelli south south, sono piuttosto chiare e confermate da recenti rapporti realizzati sondando le opinioni delle imprese: le prospettive di crescita nel medio termine di questi mercati, una base di consumatori in aumento; la grande disponibilità di risorse naturali; e la forte attenzione degli organismi internazionali allo sviluppo dell'Africa, che passa proprio attraverso il settore agricolo. Ma è altrettanto evidente che si va costituendo una struttura di relazioni economiche e commerciali che non passa più necessariamente per i protagonisti tradizionali – Europa e Nord America – ed i cui effetti dovranno essere monitorati e studiati con attenzione anche dal sistema delle imprese italiane.