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Agricoltura africana: nuove leadership e cambiamento climatico

Gli osservatori internazionali più accreditati segnalano interessanti trasformazioni nell'economia africana, anche in conseguenza di alcune nuove leadership politiche. Il settore agricolo e agroindustriale è al centro delle dinamiche positive evidenziate in taluni Paesi, anche se la presenza sempre più consistente di investitori dai Paesi orientali costituisce per le aziende europee una variabile da fronteggiare. I cambiamenti climatici rappresentano più che mai un fattore di rischio per l'economia agricola africana, e sono già attivi programmi di ricerca per sviluppare sistemi di coltivazione efficaci, e valide alternative

di Ermenegildo Sgroj
gennaio - febbraio 2019 | Back

L’Africa Summit che annualmente il Financial Times LIVE organizza ad inizio ottobre è sempre un’occasione importante per tenersi aggiornati sull’evoluzione economica e politica dei Paesi dell’area sub sahariana in particolare. Lo è anche perché si svolge a Londra dove i legami con l’imprenditoria africana sono decisamente più stretti che nel resto dell’Europa (Francia compresa), e non è un caso che il Summit venga spesso aperto dall’intervento di un Capo di Stato di uno di quei Paesi: quest’anno è stata la volta di ben due Presidenti, quello del Ghana Dankwa Akufo-Addo, e quello del Gabon, Ali Bongo Ondimba. Due Paesi che si presentano con il rivendicato obiettivo di coniugare la democrazia politica con lo sviluppo e la diversificazione dell’economia.

Certamente alcuni temi vengono riproposti da anni, a conferma che l’Africa deve ancora risolvere problemi strutturali che ne frenano lo sviluppo, ma una volta fatta la tara alle abituali, e qualche volta ripetitive, dichiarazioni di intenti che caratterizzano questi eventi, è possibile cogliere gli elementi di novità reali e i trend economici che si vanno consolidando soprattutto confrontandosi in modo diretto con i partecipanti (africani e non) alla Conferenza. Ebbene, i principali elementi di novità emersi sono almeno tre.

Il cambiamento politico radicale – Changing of the Guard – avvenuto nell’Africa Meridionale: Sudafrica, Angola e Zimbabwe. In questi Paesi la fine dei lunghi e controversi anni al potere rispettivamente di Jacob Zuma (sostituito da Cyril Ramaphosa), Jose Eduardo dos Santos (che ha lasciato il potere per Joao Lourenco JLo) e Robert Mugabe (a cui succede Emmerson Mnangagwa) stanno suscitando entusiasmo e forti aspettative innanzitutto all’interno di questi Paesi e sono destinati a rappresentare un grande elemento di novità non solo nella politica ma anche nei drivers dell’economia e dello sviluppo.

Il secondo aspetto di rilievo è la presenza che si va consolidando dei Paesi asiatici (e non solo quindi la Cina) in tutta la regione sub sahariana. Particolarmente attivi sono India, Turchia, Paesi del Golfo, Giappone e Corea del Sud. Attori che rispetto alla Cina si propongono per una diversa forma di cooperazione economica, alla quale le nostre imprese dovranno prestare forse anche una maggiore attenzione.

Infine il tentativo, sempre meno velleitario, di rafforzare la cooperazione regionale e la creazione di un mercato realmente continentale. Una dichiarazione di intenti spesso ribadita dai leader politici ed economici ma che oggi sembra più concreta alla luce sia della crescita di una consistente classe media soprattutto in East Africa che dell’interesse delle imprese globali rivolte al segmento consumer ad aggredire un mercato che abbia una dimensione adeguata.

In questo quadro di riferimento l’agricoltura e l’industria di trasformazione sono al centro sia dell’interesse politico (se non altro per l’impatto sociale su mercati a forte crescita demografica e con una grande presenza di “farmer” distribuiti sul territorio) che di delicate trasformazioni economiche e non solo.

 

I Paesi più dinamici

Possiamo proprio iniziare dal caso del Ghana, un paese che è stato definito dai principali organismi internazionali un caso virtuoso di crescita economica e stabilità finanziaria. Dopo un periodo meno brillante torna quest’anno a crescere dell’8,3 % (stime per il 2018), essendo ormai esportatore netto di energia elettrica, scelto da Google per la creazione in Africa di un centro di sviluppo per l’Intelligenza Artificiale. Eppure, in questo contesto un tema economico dominante è quello di sostenere la produzione di semi di cacao (insieme alla Costa d’Avorio i due Paesi fanno il 65% della produzione mondiale) ma anche di ampliare la base produttiva alimentare, e quindi avviare forme di industrializzazione del settore agricolo. 

Il Gabon invece – paese di foreste pluviali ed elefanti (e petrolio) – guarda al settore agricolo seguendo un modello diverso oggi fortemente sostenuto dalle multinazionali asiatiche: lo sviluppo della produzione di olio di palma, ormai una “commodity” paragonabile al petrolio.

Sull’olio di palma, molto attivo in Africa (dove è presente in 17 Paesi) è il Gruppo Olam International. L’operatività sul territorio africano è assicurata, fra le altre cose, da una connessione via tablet che tutti i “farmer” hanno con l’Head Quarter di Singapore. Questo a riprova di come la rivoluzione digitale e l’innovazione nel fintech stiano entrando prepotentemente nel settore agricolo di questo continente, che cerca di supplire alla carenza di infrastrutture fisiche proprio attraverso l’impatto dirompente dell’innovazione digitale.

Una spinta significativa sull’agricoltura è prevista soprattutto nei Paesi dell’Africa Meridionale in cui c’é stato quello che qualcuno ha definito un “cambio della guardia”. Il Sud Africa esce da un periodo in cui si è registrato un drammatico crollo degli investimenti stranieri, la valuta locale è sotto pressione ed il nuovo governo intende puntare – come ha dimostrato la South African Investment Conference 2018 tenutasi a Johannesburg dal 25 al 27 ottobre – soprattutto ad attrarre investimenti nel campo agroindustriale.

In Zimbabwe il settore target per gli investimenti agroindustriali sarà la produzione di tabacco, che richiede importanti miglioramenti sia sul fronte dei processi produttivi che in quelli della coltivazione e del miglioramento della qualità dei semi.

Ci sono poi nuovi protagonisti che emergono direttamente dalle vicende politiche, spesso conflittuali, del continente. È il caso del Sud Sudan, il più giovane fra gli Stati essendo nato l’11 giugno 2011, e che dovrebbe essere uscito definitivamente dalla fase di guerra civile post indipendenza con la firma il 12 settembre 2018 della pace tra le fazioni avverse. Come ha ben spiegato Luris Mulla, la giovane e dinamica fondatrice dell’omonima società di consulenza con base a Londra, il Sud Sudan si propone sul piano economico di sfruttare al massimo la sua connessione geo economica con i sei Paesi dell’Africa Orientale (East Africa Community). L’agricoltura di questo Paese, che beneficia di un’ampia varietà di climi e di una buona disponibilità di risorse idriche, può rappresentare un’interessante opportunità per gli operatori internazionali. I settori con maggiori potenzialità, secondo la Loris Mulla Ltd, sono quello cerealicolo, dello zucchero, il comparto del legname, e inoltre l’allevamento e il settore della pesca. La richiesta di collaborazione riguarda l’intera filiera: dalla fornitura di servizi a quella di macchinari, incluse le tecnologie per la conservazione e la trasformazione alimentare. La comunicazione di questo messaggio è veicolata da un semplice ma efficace invito “Come and invest in South Sudan, the world’s newest investment destination”.

 

Il rischio climatico

Andando oltre il FT Africa Summit di Londra, il confronto con diversi operatori internazionali che si occupano a vario titolo di agricoltura (traders, imprenditori, centri di ricerca e istituzioni finanziarie), fa emergere anche una minaccia che incombe su questo settore, che per alcuni aspetti potrebbe trasformarsi in opportunità per gli stessi Paesi Africani: il cambiamento climatico. Uno studio del Potsdam Institute for Climate Impact Research ha evidenziato gli effetti negativi che un incremento della temperatura sopra i 30° ha per alcune produzioni tipiche del continente africano: grano, soia, mais, caffè. In uno scenario di riscaldamento globale in cui molti esperti parlano esplicitamente di “climate risk” per l’agricoltura africana (ma evidentemente non solo per questa), il caso forse più evidente è quello del caffè tipo arabica, che cresce abitualmente sugli altipiani africani e sudamericani. Da qualche anno si nota, per effetto dell’aumento delle temperature, una riduzione delle aree coltivabili e il conseguente abbandono della coltivazione di caffè, sostituito (a seconda dei Paesi) da altre colture: cacao, banane, ma anche pepe, tapioca e cardamomo. In questo scenario si inserisce il forte sviluppo della coltivazione di olio di palma, che in molte situazioni si è rivelata purtroppo estremamente aggressiva, in termini di deforestazione ed effetti inquinanti.

il cambiamento climatico ha un impatto forte sul settore delle commodities agricole, specie in Africa dove è già tradizionalmente soggetto alla variabilità delle stagioni (siccità o fenomeni meteorologici) che determina forti fluttuazioni dei prezzi, pressioni sui costi di trasporto e su quelli delle assicurazioni, con ricadute non indifferenti anche sul piano della stabilità sociale.

Non è un caso quindi che di “climate risk” parli soprattutto il sistema finanziario (quello che deve supportare gli scambi di commodities agricole non troppo differenti, per come vengono trattate sui mercati, dal petrolio). Cosciente del cambiamento, ritenuto evidentemente ineludibile nel breve termine, anche il sistema finanziario-assicurativo sta iniziando a dare la preferenza alle produzioni sostenibili attraverso strumenti ad hoc meno costosi (un modo per garantirsi il contenimento dei rischi nelle operazioni di finanziamento del commercio internazionale, il cosiddetto Trade Finance). Un gruppo di banche internazionali, ad esempio, coopera attivamente con il World Coffee Research per analizzare i cambiamenti globali in corso nella coltivazione e lavorazione del caffè. Oppure la decisione di alcune banche ed assicurazioni di sostenere solo operazioni nel settore dell’olio di palma condotte da soggetti aderenti al Roundtable on Sustainable Palm OIL Rules (che gode del supporto della Banca Mondiale).

Il trend sembra segnato, visto che anche i principali acquirenti globali di commodities agricole – Unilever, Nestlè, Coca Cola – si sono impegnati, obiettivo 2020, a garantire una supply chain ZND, acronimo per indicare una “zero net deforestation” mentre Mars, ancora Unilever e Nespresso hanno investito nella Rainforest Alliance certification.

Un’opportunità, ed insieme una necessità, per le imprese italiane e occidentali in senso generale è quella di approfondire la conoscenza di queste dinamiche, per proporsi a sostegno di questa trasformazione. In un contesto infatti di prodotti agricoli il cui prezzo non è in grado di recuperare il picco del 2011 (confronta FAO Index) la sfida è proporre servizi e prodotti in grado di favorire le trasformazioni produttive e la diversificazione, diffondere la meccanizzazione, migliorare i processi produttivi, sviluppare le tecnologie “green”, fornire assistenza nel campo della ricerca sulle sementi. E come sempre – vista la peculiarità delle aziende italiane – offrire soluzioni nel campo del “food processing”, della conservazione, del packaging  e della logistica.

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