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Tecnica

Tecnologie per la preparazione ottimale del letto di semina

Da diversi anni, ricercatori e operatori del settore agricolo (ognuno con le proprie competenze e da punti di vista complementari) hanno partecipato a un dibattito importante sul dualismo tra le tecniche di lavorazione tradizionali del terreno, ovvero la classica aratura seguita dall'erpicatura, e quelle di minima o non lavorazione (cioè minimum, strip o no-tillage), nei termini di quale fosse la scelta più adeguata sia dal punto di vista economico, sia soprattutto da quello della sostenibilità ambientale

di Daniela Lovarelli
gennaio 2018 | Back

L’aratura è l’operazione per antonomasia della lavorazione primaria tradizionale del suolo; permette il rivoltamento dello strato superficiale del terreno (quello cosiddetto “fertile”), realizzando al contempo l’interramento dei residui colturali, a tutto vantaggio del mantenimento di un tenore soddisfacente di sostanza organica. Tale intervento comporta però l’attivazione di processi aerobici che portano ad una più rapida degradazione di quest’ultima e, di conseguenza, alla necessità di apportare opportune integrazioni, con adeguati fertilizzanti e ammendanti. Si tratta di una grande sfida per l’agricoltura, presente e futura. Inoltre, l’aratura è una lavorazione molto energivora, dato che tra tutte le operazioni agricole periodiche fa registrare spesso i più alti consumi di combustibile per unità di superficie, richiedendo tra l’altro l’impiego di trattori ben “stazzati”, quindi di medio-alta potenza.

L’affinamento del terreno arato per la preparazione del letto di semina (detto anche lavorazione secondaria) viene poi solitamente realizzato con erpici di varia foggia, distinti in due gruppi principali, ovvero i modelli ad organi fissi o folli (che non prevedono l’uso della presa di potenza, per esempio erpici a denti flessibili, a denti rigidi, a dischi) e quelli che viceversa richiedono potenza per il movimento degli attrezzi, come gli erpici rotativi. A tale proposito, per individuare la corretta intensità di lavorazione (compreso il numero di ripetizioni degli interventi), devono essere considerate parecchie variabili. Tra queste, riveste notevole importanza la tessitura del terreno, la sua umidità al momento della lavorazione e il tipo di coltura da praticare successivamente. Senza dubbio, ogni tipologia di erpice mette in rilievo vantaggi e svantaggi, più o meno amplificati in ogni specifico contesto produttivo. In generale, gli erpici rotativi, se correttamente impiegati mostrano una buona capacità di affinamento del terreno, pur richiedendo anch’essi trattori di potenza medio-alta, e comportando pertanto consumi di gasolio tendenzialmente elevati, tra l’altro con capacità operative piuttosto basse.

Per contro, gli erpici a denti rigidi o folli e quelli a dischi evidenziano di solito una minore efficienza di affinamento, e sovente richiedendo più passaggi sullo stesso appezzamento, con un conseguente allungamento dei tempi di lavoro. In questo caso, sono però solitamente sufficienti trattori di potenza medio-bassa, con consumi relativamente ridotti.

 

Minima lavorazione e semina su sodo

Da diversi anni stanno suscitando un crescente interesse soluzioni di minima lavorazione per la preparazione del letto di semina, che comportano un’indubbia semplificazione del cantiere di lavoro, con un contestuale aumento della produttività. Oltre a diminuire il consumo di gasolio, poter evitare l’aratura comporta l’assenza della formazione della tipica suola di lavorazione che questa operazione provoca; inoltre, si diminuisce il compattamento e si rallenta la degradazione della sostanza organica, evitando il ricorso ad un cantiere di lavoro piuttosto complesso e impegnativo, sia in termini temporali che economici.

L’approccio basilare della minima lavorazione prevede un dissodamento dello strato più superficiale del terreno (fino a 8-15 cm di profondità), provvedendo successivamente alla semina con seminatrici dotate di organi un po’ più robusti rispetto a quelli tradizionali.

Un’alternativa che mantiene comunque un approccio molto simile è quella dello strip tillage che, come suggerisce il nome, prevede che il terreno venga lavorato solo a strisce corrispondenti alle file dove successivamente verranno deposti i semi.

All’opposto, con la semina diretta si esegue la lavorazione superficiale e la semina in un unico passaggio, adottando allo scopo una seminatrice specificamente realizzata, che grazie a organi di lavoro molto robusti pratica un piccolo solco nel suolo, dove vengono deposti i semi. Tutto il resto del terreno non viene lavorato.

Nonostante i benefici dovuti: i) all’assenza dell’aratura; ii) al numero di passaggi molto più contenuti; iii) all’aumento delle velocità di lavoro, va detto che non tutte le colture sono compatibili con la minima lavorazione e soprattutto non è poi così scontato che per ciò che concerne la sostenibilità ambientale la minima lavorazione e la semina su sodo siano meno impattanti della lavorazione tradizionale (ovvero l’aratura seguita da una o più erpicature).

Valutazione della sostenibilità ambientale

Tutte le variabili illustrate rivestono un ruolo fondamentale nella valutazione della sostenibilità ambientale delle lavorazioni del terreno.

Per quanto riguarda le lavorazioni tradizionali, l’impatto ambientale dell’aratura dipende dalla tessitura del terreno (sciolto, medio impasto o pesante), dal tipo di aratro adottato (numero di vomeri, aratro a versoio, fenestrato o a losanghe), così come dalla tipologia di erpice (mosso o meno dalla presa di potenza, con un peso più o meno elevato, ecc.) e dal numero di passate richieste. La tessitura del terreno è un fattore non modificabile, e da esso dipende in modo determinante l’intensità della lavorazione da applicare, condizionando in modo rimarchevole la potenza del trattore necessario, il suo consumo di combustibile e, di conseguenza, le relative emissioni gassose nell’ambiente. Inoltre, se il numero di vomeri dell’aratro (quindi la sua larghezza di lavoro) influenza i tempi di lavoro nonché la potenza del trattore da accoppiare, bisogna anche considerare la massa di materiale presente, che deve essere ripartito lungo la vita utile del macchinario. Le medesime considerazioni possono essere formulate sulle operazioni di lavorazione secondaria, dove si possono eseguire operazioni efficaci in una unica passata ma molto energivore e, dall’altro, lavorazioni a basso consumo di combustibile, ma che richiedono diverse ripetizioni per ottenere una qualità di lavorazione comparabile.

L’Analisi del Ciclo di Vita (LCA, Life Cycle Assessment) è un metodo di analisi sempre più applicato a livello mondiale per questo tipo di valutazioni di sostenibilità ambientale. Si tratta di un metodo di analisi standardizzato da una normativa ISO, che consente di confrontare una o più operazioni caratterizzate da una medesima unità di riferimento, al fine di individuare quale di esse ha l’impatto ambientale più alto, quanto è l’effettivo impatto dell’operazione e quali sono i processi nell’operazione che hanno il maggior peso. Nell’analisi sono inclusi estrazione, produzione, uso, smaltimento degli input produttivi (per esempio, nei casi illustrati: gasolio, lubrificanti, trattore e macchina operatrice, fertilizzanti, ecc.) e l’emissione di output nell’aria, nel suolo e nell’acqua (per esempio: gas di scarico dei motori, dilavamento dei nutrienti, ecc.). Gli impatti ambientali vengono calcolati ripartendoli su diverse categorie di impatto, tra cui per esempio il riscaldamento globale o impronta di Carbonio, l’eutrofizzazione, l’acidificazione, la formazione di particolato e di smog chimico, il consumo di risorse minerali e fossili, tutti fattori in grado di rappresentare gli effetti sull’ambiente arrecati da tutti gli input e output valutati. Proprio perché si considerano anche la produzione, l’uso e lo smaltimento dei trattori e delle macchine operatrici, oltre al consumo di gasolio e all’emissione dei gas inquinanti provenienti dalla combustione nel motore, anche la massa delle singole macchine gioca un ruolo sull’ambiente. In particolare, la sua entità dipende dalle condizioni di impiego e dal numero di passate sul medesimo appezzamento; se ad esempio per un’ottimale preparazione del letto di semina si richiede l’intervento con due o più erpici diversi, l’impatto della lavorazione secondaria aumenta, perché oltre a dover ripetere l’operazione e a dover quindi moltiplicare il consumo di gasolio, si deve anche tenere conto del consumo delle macchine, non solo in termini di usura, ma anche di impatto dovuto alla costruzione, manutenzione e sostituzione, nonché allo smaltimento a fine vita. Bisogna poi tenere presente che una macchina a fine vita che è risultata sottoutilizzata provoca un impatto considerevole, proprio perché il suo potenziale d’uso non è stato sfruttato appieno. Va sottolineato che ciò dipende sempre dal tipo di terreno, dalla congruità del trattore che viene accoppiato alla macchina operatrice e dalle capacità di guida dell’operatore. A loro volta, queste variabili ne influenzano altre, più legate al funzionamento ottimale del trattore e al processo di combustione nel motore endotermico. Pertanto, non è sempre vero che la riduzione delle passate comporta una miglior sostenibilità dal punto di vista ambientale, per cui non in tutti i casi la minima lavorazione ha un impatto ambientale più basso di quella tradizionale. In definitiva, in ogni contesto produttivo è indispensabile valutare preventivamente, con approcci validi e riconosciuti, come e quali operazioni siano da eseguire, in modo da risultate sostenibili sul maggior numero di aspetti.

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