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Tecnica

La riduzione delle emissioni dei motori diesel

I gas di scarico dei motori endotermici hanno un elevato impatto ambientale, ma i moderni sistemi antinquinamento possono ridurlo fino a oltre il 90%

di Domenico Pessina e Lavinia Eleonora Galli
luglio - settembre 2019 | Back

Dall’ormai lontano 1996, il mondo dei motori endotermici è stato sconvolto da un accadimento epocale, ovvero l’introduzione di regole, estese di fatto a livello mondiale, finalizzate a ridurre in modo enorme le emissioni inquinanti in atmosfera. è stata stilata una sorta di road map di ampio respiro, che ha portato quasi ad azzerare il deleterio impatto dei gas di scarico sul delicato ecosistema mondiale del nostro pianeta.

Per comprendere a fondo la portata di tali provvedimenti basti pensare che: 1) in contemporanea, sia l’Unione Europea che gli Stati Uniti si sono accordati  (e, alla luce della situazione attuale, non è cosa da poco!) per tempi e modi dei diversi passaggi inerenti la progressiva limitazione delle emissioni; 2) per una volta, è accaduto che un provvedimento legislativo forzasse, spingesse (in modo a volte estremamente deciso) il progresso tecnico e non il contrario (come invece avviene quasi sempre), ovvero che il progresso tecnico anticipi la legislazione, che in tal modo non fa altro che adeguarsi (a volte con notevole ritardo) e ciò che di fatto è già stato acquisito. La normativa sviluppata è stata strutturata in una serie di passaggi (o ”step”) identificati di base con numeri, cui corrispondono determinati limiti emissivi, che in Europa sono stati definiti dalla Commissione Europea come “Stage” e negli USA dall’EPA (Environmental Protection Agency) come “Tier”.

Anche il settore dei cosiddetti veicoli “off-road”, cui le macchine agricole appartengono, è stato ovviamente coinvolto in tale cambiamento epocale, e quindi anche i motori installati sui trattori e sulle macchine operatrici semoventi stanno seguendo, seppur con tempistiche meno stringenti rispetto ad altri settori, il medesimo percorso. I trattori in particolare producono un’aliquota significativa di inquinanti, a causa sia della tipica notevole durata di questi mezzi, e quindi della perdurante operatività di macchine con diverse decine di anni di anzianità di servizio, ma anche per gli elevati consumi orari dei modelli più potenti nello svolgimento delle lavorazioni più impegnative, come ad esempio le lavorazioni profonde del terreno.

I costruttori sono stati quindi forzati (è proprio il caso di dirlo…) a mettere a punto nuove tecnologie per limitare l’impatto ambientale delle emissioni gassose inquinanti.

 

I principali inquinanti dei motori endotermici

L’inquinamento ambientale è causato principalmente dall’effetto serra che questi gas provocano; i principali componenti sono: il monossido di carbonio (CO), gli idrocarburi incombusti (HC), gli ossidi di azoto (NOx) e il particolato (Particulate Matter, PM).

I motori diesel, che rappresentano la tipologia quasi esclusivamente adottata nell’ambito agricolo, risultano critici per la produzione di ossidi di azoto (NOx), a causa dell’elevata temperatura che si genera durante la combustione, e di particolato nelle sue diverse classificazioni dimensionali (PM 10, PM 5 e PM 2,5), per la non completa combustione del gasolio.

Al fine di ridurre l’emissione in atmosfera di questi due inquinanti, sono stati studiati, validati e commercializzati alcuni dispositivi in grado di diminuirne e/o neutralizzarne (in parte o in toto) la dispersione come tal quali.

 

Exhaust Gas Recirculation (EGR)

è una soluzione che si basa sulla re-immissione di una parte dei gas di scarico (circa il 5-15% in volume) in camera di combustione, abbassando in tal modo la temperatura di combustione e di conseguenza riducendo la produzione di ossidi di azoto. Tale processo è modernamente realizzato in modo esterno, grazie all’intercettazione di una parte variabile dei gas di scarico, a cura per mezzo di una valvola dedicata gestita elettronicamente, successivamente i gas vengono raffreddati tramite uno scambiatore di calore, al fine di ridurne la temperatura e quindi aumentarne la densità, e sono poi re-immessi nella camera di combustione insieme al gasolio e all’aria.

Sebbene risulti efficace nella riduzione degli NOx, tale soluzione (la prima in ordine di tempo adottata dai costruttori) incrementa inevitabilmente la produzione di PM e HC, oltre a causare una perdita di efficienza, sostanzialmente a causa della combustione che avviene a temperature più basse, ed è quindi meno completa. Inoltre, l’olio lubrificante è sottoposto ad una degradazione più veloce.

 

Selective Catalytic Reduction (SCR)

Si tratta di una soluzione preferita frequentemente adottata dai produttori europei di motori diesel, che ha lo scopo di ridurre gli NOx generati dalla combustione tramite un post trattamento (cioè dopo la generazione dei fumi, ma prima che vengano immessi in atmosfera), grazie ad una reazione chimica localizzata in un apposito ambiente, in cui sui gas di scarico ad altissima temperatura viene nebulizzata una soluzione acquosa di urea purissima al 32,5% di concentrazione, nota commercialmente come AdBlue; la reazione che ne deriva produce componenti innocui per l’ambiente, cioè azoto atmosferico e acqua sotto forma di vapore. La nebulizzazione di AdBlue è regolata da un sensore posizionato all’interno dello scambiatore e collegato ad una centralina, che monitora gli NOxe di conseguenza dosa secondo necessità la corretta quantità di urea da rilasciare. L’SCR non comporta quindi riduzioni di potenza, ma va tenuto in conto l’aumentato costo di esercizio per l’acquisto dell’AdBlue e gli ingombri aggiuntivi a bordo macchina, sia del serbatoio del reagente che soprattutto del contenitore dove avviene la reazione chimica descritta. Proprio quest’ultimo aspetto evidenzia una pesante criticità in relazione alla sua adozione sui trattori specializzati, dove la cronica carenza di spazio sottocofano non permette in alcun modo al momento la sua installazione.

 

Diesel Particulate Filter (DPF)

Più noto in Italia come FAP (Filtro Anti Particolato), consiste appunto in un filtro di tipo fisico, che trattiene le particelle di particolato (PM) di maggiori dimensioni. è realizzato in materiale refrattario con struttura a nido d’ape, con maglie estremamente fitte atte ad intercettare efficacemente le particelle di PM. Il DPF crea inevitabilmente una contropressione all’espulsione dei fumi di scarico, generando in tal modo una resistenza che incide sul rendimento del motore già a filtro pulito libero, ma soprattutto a filtro occluso quando è intasato. Pertanto, per assicurarne un corretto funzionamento, il filtro deve essere sottoposto ad una costante pulizia, ottenuta mediante la cosiddetta “rigenerazione”, che può essere attiva o passiva, ed eseguita in automatico oppure anche manualmente (v. box).

 

Diesel Oxidation Catalyst (DOC)

Installato in aggiunta al DPF o addirittura in sua sostituzione, oltre a trasformare gli idrocarburi poliaromatici (convertendoli in CO2 e acqua, in presenza di ossigeno), riesce ad immobilizzare al proprio interno il PM ed il residuo di particolato organico non carbonioso. è composto da piastre in ceramica con struttura a nido d’ape, rivestite con metalli nobili che fungono da catalizzatori. è particolarmente efficiente nel trattenere la frazione più piccola del PM, ed evita la formazione di ozono, dannoso per la troposfera. Per contro, la sua efficienza si riduce se viene impiegato gasolio ad alto tenore di zolfo.

 

Dove va il progresso tecnico

L’applicazione, spesso singola e in alternativa, dei dispositivi descritti ha finora consentito il rispetto dei limiti imposti dalle normative fino allo Stage 4 / Tier 4 final. Il progressivo irrigidimento dei limiti emissivi imposti dagli step più recenti ha però obbligato i costruttori a mutare la strategia di intervento.

è indubbio che la soluzione migliore si è rivelata quella di progettare e mettere a punto nuovi motori con emissioni meno inquinanti, puntando soprattutto sul miglioramento della combustione. Da questo punto di vista un formidabile contributo è stato offerto dall’evoluzione del common rail, che ha raggiunto altissime pressioni di iniezione (superiori a 2000 bar) e da un sempre più accurato studio della conformazione della camera di combustione (per favorire una miscelazione ottimale tra combustibile e comburente), oltre naturalmente alla più precisa gestione, ovviamente elettronica, dell’iniezione stessa (ad esempio con la tecnologia delle immissioni parziali multiple).

Sui motori destinati ai trattori di potenza medio-piccola, anche per la citata carenza di spazio sottocofano ora viene installato solo il DOC o il DPF (oppure una combinazione dei due dispositivi); per i motori più potenti ciò non è però sufficiente, per cui spesso è necessario applicare al contempo due o più differenti dispositivi, che abbattano contestualmente PM e NOx. Le combinazioni maggiormente adottate sono EGR+DOC, EGR+DPF, o SCR+DPF; per poter rientrare nei limiti emissivi più restrittivi, in alcuni casi (particolarmente complessi) è possibile trovare anche combinazioni costituite, da monte a valle, da DOC, DPF, SCR e AOC (Ammonia Oxidation Catalyst).


L’AdBlue in agricoltura

Con l’introduzione dell’SCR (Selective Catalytic Reduction) sui veicoli del settore automotive, la disponibilità dell’AdBlue (ossia la denominazione commerciale del fluido necessario per la conversione degli ossidi di azoto in componenti innocui per l’ambiente) ha raggiunto una diffusione capillare, tanto che oggi è facile acquistarla presso molti distributori di carburanti, ma anche in alcune catene di negozi specializzati e supermercati. Il rifornimento di AdBlue avviene direttamente mediante un’apposita pompa (del tutto analoga a quella del gasolio, anche se con una portata inferiore) nei distributori, mentre presso i rivenditori autorizzati e i supermercati è disponibile in taniche da 5-15 litri.

Per poter disporre di un’adeguata autonomia (e ma anche per abbattere i costi), nell’ambito agricolo l’AdBlue viene gestita in modo differente. Infatti, tipicamente le aziende agricole acquistano tale fluido in un serbatoio cubico di polietilene, spesso protetto da una griglia metallica, di capacità variabile (ma solitamente da 1000 litri) già corredato da una pompetta elettrica autonoma alimentata a 12 V e una pistola per effettuare facilmente il rifornimento presso il centro aziendale.


La rigenerazione dei dispositivi DPF

Si tratta di un intervento necessario per il DPF (Diesel Particulate Filter): infatti, essendo questo un filtro di tipo fisico, è inevitabilmente soggetto ad un progressivo intasamento, fattore che ne pregiudica le prestazioni. Occorre quindi ripristinarne l’efficienza con un intervento di manutenzione straordinaria, che può essere eseguito con lo smontaggio del componente e una pulizia mediante solventi oppure, molto più di rado, con la completa so­­stituzione del filtro (una pratica peraltro piuttosto costosa).

Viceversa, la cosiddetta “rigenerazione” può avvenire “on site”, ed essere sostanzialmente di due tipi, attiva o passiva. Nel primo caso, il processo è periodico, e gestito da una centralina, che tramite sensori dedicati controlla la differenza di pressione tra entrata e u­sci­ta del DPF: se viene rilevato un valore superiore ad una soglia prefissata, si innesca in automatico il processo di pulizia. In pratica, per un limitato periodo di tempo (di solito circa 10-15 minuti) viene aumentata la mandata di gasolio in camera di combustione, in modo da causare un incremento della temperatura dei fumi di scarico, tale da consentire la gassificazione delle particelle carboniose che occludono le maglie del filtro.

Si tratta di una soluzione efficace per ridurre il PM emesso in atmosfera, che però evidenzia alcuni svantaggi, quali una limitata riduzione della potenza motore generata, dovuta alla resistenza che il filtro progressivamente intasato oppone all’espulsione dei gas di scarico e la maggior emissione di NOx dovuta all’incremento di temperatura in camera di combustione quando viene effettuata la rigenerazione. La gestione automatica della rigenerazione può essere rimandata (di solito per un massimo di 2-3 volte) se si verificano condizioni potenzialmente pericolose, come ad esempio un rischio di incendio della vegetazione secca eventualmente presente sotto al trattore, che potrebbe essere soggetta a combustione a causa delle elevate temperature cui è soggetto tutto il blocco motore durante la rigenerazione. In tal caso, è successivamente necessario intervenire manualmente, con la cosiddetta rigenerazione manuale o “da par­cheggio”. Se si tra­scura anche questa procedura, di solito anche per una sola volta, la rigenerazione potrà essere effettuata solo in officina.

Bisogna infine considerare che la rigenerazione periodica del DPF ha un impatto, seppur limitato, sui consumi globali del motore; si tratta di un dato non facile da quantificare, ma recenti e autorevoli studi hanno permesso di accertare che l’aggravio sui consumi di gasolio del trattore assomma mediamente all’1% circa del totale. Si sta invece diffondendo sempre più la cosiddetta rigenerazione passiva, che prevede l’impiego di filtri (coated DPF) sempre con struttura a nido d’ape, ma nei quali la superficie è ricoperta da un sottile strato di metalli nobili (spesso viene usa­to il platino) che funge da catalizzatore per la continua trasformazione chimica delle particelle di carbonio in molecole di CO2.

In pratica, questo tipo di filtro (che viene talvolta combinato con il DOC, Diesel Oxidation Filter) viene collocato molto vicino all’uscita dei gas di scarico in modo da sfruttarne la temperatura ancora elevata (intorno a 300-350 °C), facilitando così in tempo reale la reazione chimica indicata, senza necessità di alcuna iniezione supplementare di gasolio per l’aumento temporaneo della temperatura dei gas di scarico.

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