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Tecnica

Razionalizzare gli input agricoli per migliorare la sostenibilità

L’impiego dei macchinari e degli input agricoli va inevitabilmente ad impattare sull’ambiente. Uno studio nella filiera di produzione della carne rossa dimostra che con limitati accorgimenti, di natura colturale e relativi all’uso dei macchinari, si possono ottenere tangibili benefici

di Michele Zoli, Jacopo Bacenetti
gennaio 2024 | Back

L'ambientale di una determinata filiera di produzione può essere mitigato in vari punti e fasi, che però possono essere sotto il controllo di diversi attori. Da qui la necessità di un attento coordinamento tra gli operatori coinvolti; nel caso della produzione di carne rossa, un incremento della sostenibilità del prodotto finale può derivare: dall’ottimizzazione delle lavorazioni di campo inerenti la produzione del foraggio, dalla riduzione dei consumi energetici della stalla, da una gestione razionale dei reflui (ad esempio con l’introduzione di impianti di digestione anaerobica), così come delle operazioni di macellazione e distribuzione.

Una ricerca dal titolo “Environmental effect of improved forage fertilization practices in the beef production chain” recentemente pubblicata sul Journal Science of the Total Environment, concernente l’analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment, LCA) per la valutazione dell’impatto ambientale dell’allevamento di bovini da carne, si è concentrata sulla produzione di insilati di cereali in due allevamenti collocati in pianura padana, valutando come l’ottimizzazione delle tecniche di coltivazione abbia permesso di ridurre l’impatto ambientale.

Analisi del ciclo di vita. Secondo le norme ISO 14040 e 14044, il Life Cycle Assessment è strutturato su 4 diverse fasi. Gli impatti sono stati calcolati per tonnellata di prodotto quindi sia di grano foraggero che di pastone integrale di mais. In generale, il valore nutrizionale delle due componenti è più direttamente legato al contenuto in sostanza secca rispetto alla massa fresca; peraltro, non essendo disponibili al momento le informazioni riguardo l’umidità dei due alimenti, le diverse tipologie di impatto (ambientale, energetico, ecc) sono state rapportate necessariamente alla sostanza fresca. Lo studio ha considerato tutte le operazioni svolte per la produzione dei fattori produttivi impiegati (sementi, fertilizzanti, macchine agricole, ecc.), fino alla coltivazione e alla raccolta dei foraggi.

La coltivazione del grano foraggero è stata praticata su circa 80 ha, con una resa media di 49,2 t/ha di prodotto tal quale nel 2019 e di circa 40 ha (resa media di 47,1 t/ha) nel 2021; la differenza rilevata riguarda sostanzialmente la fertilizzazione, che nel 2021 ha visto l’impiego del digestato anche in copertura, in sostituzione dei fertilizzanti minerali.

Viceversa, la produzione di pastone integrale di mais si è articolata su circa 170 ha, con una resa media di 14,5 t/ha per il 2019, e su circa 255 ettari (17,8 t/ha la resa media) per il 2021. In questo caso, è stata applicata la medesima tecnica colturale nelle due annate considerate, anche se le condizioni pedoclimatiche e l’adeguamento del parco macchine aziendale hanno permesso di eseguire con maggior tempestività alcune lavorazioni, registrando tra l’altro un breve allungamento del ciclo colturale. Per entrambe le colture, relativamente alla meccanizzazione si possono evidenziare due aspetti chiave della tecnica di coltivazione. Il primo è la distribuzione del digestato in presemina che avviene utilizzando appositi spandiliquame dotati di iniettori in grado di distribuire il fertilizzante organico in solchi profondi pochi centimetri. Questa operazione può essere eseguita con una delle molteplici soluzioni tecnologiche che sono proposte sia da costruttori nazionali (come Vaia e Bonsegna) che internazionali. La deposizione del fertilizzante organico in solchi, a fronte di un lieve incremento dei consumi di carburante, permette di ridurre le emissioni di ammoniaca legate alla volatilizzazione. L’incremento dei consumi, quantificabile nell’ordine di pochi chilogrammi ad ettaro, è legato all’aumento della forza di trazione richiesta per l’apertura dei solchi. Il secondo elemento che contraddistingue la tecnica di coltivazione riguarda la lavorazione primaria del terreno che prevede il ricorso a seminatrici per minima lavorazione precedute da un intervento leggero di lavorazione primaria del terreno. Entrambe queste scelte sono state adottate nel corso degli anni sulla base di un percorso di ottimizzazione che ha previsto l’analisi delle soluzioni disponibili sul mercato nonché il monitoraggio dei risultati produttivi e delle caratteristiche dei terreni destinati all’autoproduzione di foraggi. La presenza nel parco macchine aziendale di trattori con potenze medio alte, sufficienti per soddisfare le richieste dello spandiliquame con iniettori e delle macchine per la minima lavorazione è un aspetto che ha inciso positivamente.

Il confronto relativo tra le due annate evidenzia come la differente tecnica di coltivazione del grano foraggero comporti variazioni non trascurabili dei risultati ambientali. Il mancato impiego dell’urea nel 2021 permette di ridurre i costi ambientali connessi alla sua produzione, eliminando anche le emissioni di CO2 relative alla sua degradazione in campo. Ciò influenza positivamente l’impronta di carbonio (-11%) e gli altri impatti condizionati dai consumi energetici e di risorse minerali e fossili. Peraltro, l’incremento significativo del fertilizzante organico (digestato) comporta un aumento delle emissioni di composti azotati (es. ammoniaca) che provocano un incremento dell’acidificazione e della formazione di particolato. Nel caso del pastone di mais nel 2021, il marcato incremento di resa a fronte della stessa tecnica produttiva ha portato ad una riduzione considerevole dell’impatto ambientale, poiché i consumi di fattori produttivi sono ammortizzati su una produzione maggiore. L’impronta di carbonio cala del 19% mentre la riduzione dell’eutrofizzazione marina è maggiore (-27%) perché beneficia non solo dell’aumento della produzione ma anche della riduzione della lisciviazione dei nitrati, conseguita grazie a una migliore efficienza d’uso dell’azoto (ovvero una resa maggiore, a parità di fertilizzazione). Considerando l’intero processo produttivo, quindi includendo anche la fase di stalla e di gestione dei reflui, la maggior sostenibilità della produzione dei due cereali insilati consente una diminuzione dell’impatto della carne rossa che varia tra lo 0,4 e il 4,8%, in funzione dell’effetto ambientale. Peraltro, tale riduzione non considera eventuali ulteriori azioni di efficientamento e mitigazione attuate nella fase di stalla e di gestione dei reflui zootecnici. Pur considerando utopistico il completo azzeramento degli impatti (se non per l’impronta di carbonio, e solamente grazie all’”artificio contabile” dell’acquisto dei crediti di carbonio), per produrre realmente beni maggiormente sostenibili è necessario l’intervento di tutti gli attori di una filiera. Il caso analizzato dimostra che, pur in assenza di ingenti investimenti, ma unicamente tramite un’ottimizzazione delle lavorazioni di campo e una sostituzione dei fertilizzanti minerali con il digestato (tra l’altro disponibile in azienda) è possibile ridurli di circa il 5%.

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