Macchine agricole, non tutto è acciaio
Acciaio inox, ceramica, carburo di tungsteno, vetroresina, plastiche e addirittura calcestruzzo. Sono solo alcuni dei materiali alternativi all’acciaio ormai comunemente adottati per la fabbricazione di parti, apparati, elementi, componenti e accessori delle macchine agricole
Megghiu cunzumassi che arrugginissi”, recita un vecchio detto siciliano. Ovvero: “meglio consumarsi che arrugginire”. Esiste anche un equivalente in inglese: “It’s better to wear out than to rust out”. Applicato al mondo dei macchinari agricoli, richiama il duro lavoro della terra (in senso letterale), che a causa degli attriti consuma progressivamente gli utensili soggetti a usura. Il senso è chiaro: un utensile consumato ha fatto tanto lavoro, e quindi è stato utile e proficuo, al contrario di quello arrugginito, che invece è stato inoperoso, e pertanto inutile.
In ogni caso, si fa riferimento ad una realtà incontrovertibile, ovvero che la quasi totalità del macchinario agricolo è costruita con metalli ottenuti a partire dal minerale di ferro, nelle sue diverse versioni: ghisa, ferro dolce, ferrite, acciaio comune, acciai speciali, ecc. Ciò è assolutamente logico e normale, tenendo conto che tale materia prima è molto comune sul nostro pianeta, e i suoi derivati mostrano un insieme di caratteristiche che nella gran parte dei casi ben si adattano alle esigenze del lavoro agricolo meccanizzato. Quando, ad esempio, serve solo peso, ben si presta la ghisa, dato che la massa volumica di questo derivato (così come del resto l’acciaio) è superiore di quasi 8 volte a quella dell’acqua, che è il riferimento; se viceversa serve elasticità, ben si presta l’acciaio, un derivato decisamente più raffinato. Peraltro, l’acciaio può comunque essere combinato in numerose leghe (con molibdeno, cromo, nichel, vanadio, boro, tungsteno, ecc.) e ulteriormente sottoposto ad una serie di trattamenti, sostanzialmente di tipo termico, che possono modificare le sue qualità in termini di resistenza, durezza, duttilità, tenacità e resilienza. Tuttavia, anche nelle macchine agricole non tutto è semplice “ferro”… Ci sono innumerevoli parti, apparati, elementi, componenti e accessori che sono abitualmente prodotti con varianti e derivati dal minerale di ferro, e soprattutto con materiali diversi, sia metallici che non. Quella che segue è una brevissima (e largamente incompleta…) panoramica in tema.
Acciaio inossidabile. L’evoluzione probabilmente più frequente del comune acciaio al carbonio è la versione inox, ovvero la sua combinazione con il cromo (generalmente per il 12-18%, integrato eventualmente anche con nichel o molibdeno), che ossidandosi si depone in uno strato esterno molto denso e sottilissimo (dello spessore di 3-5 x 10-7 mm), comunque sufficiente ad evitare efficacemente la corrosione. Non solo, ma l’acciaio inossidabile si caratterizza anche per una durezza superficiale notevole, che ben si presta in quelle applicazioni che la richiedono. Ovviamente, ciò comporta anche alcuni svantaggi, riconducibili essenzialmente al costo più elevato e alla maggiore difficoltà di lavorazione dei normali acciai al carbonio.
Comunque sia, sono molto numerosi gli usi dell’acciaio inox nelle macchine agricole: ad esempio, uno relativamente recente è la fabbricazione delle coclee verticali dei carri miscelatori. La Kuhn ha di recente adottato la tecnologia “K-Nox” per le coclee dei suoi modelli, grazie alla quale l’entità dell’usura sia chimica che meccanica è notevolmente ridotta, nonostante il notevole potenziale corrosivo causato dell’acidità, anche notevole, dei prodotti più comuni della razione zootecnica (pH dell’insilato di mais 3,9; dell’erba 5,8; della farina di soia 6,7) e alla silice, una componente notoriamente molto abrasiva sulle parti metalliche. Più in dettaglio, la denominazione K-Nox fa riferimento ad una lega composta da cromo e ferrite, dove il primo garantisce resistenza all'usura chimica, mentre la ferrite assicura alla coclea di miscelazione la necessaria resistenza meccanica.
Il costruttore dichiara una durata delle coclee verticali in K-Nox nettamente più lunga dell’usuale, tale da scongiurare un potenziale rischio di rottura anche dopo diverse migliaia di ore di lavoro.
Carburo di tungsteno. Sempre in tema di lavorazione del terreno, per fronteggiare efficacemente il problema dell’usura degli organi lavoranti, si ricorre a materiali molto più resistenti dell’acciaio, come il carburo di tungsteno, tramite sostituzione delle parti maggiormente sollecitate, oppure più di frequente con l’applicazione di specifici inserti. La loro realizzazione richiede un controllo molto preciso di ogni fase della produzione. Dopo la sinterizzazione, cioè la trasformazione mediante riscaldamento di un materiale dalla forma polverulenta a quella solida, sono eseguiti diversi passaggi di formatura per compressione, ad ottenere gli inserti che saranno collocati, spesso per brasatura, nella loro posizione finale, talvolta con un trattamento termico dell’intero componente a 800°C per una miglior omogeneità strutturale del pezzo.
Materiale plastico e vetroresina. Le materie plastiche possono costituire in determinati casi una valida alternativa all’uso dell’acciaio, come ad esempio per la costruzione degli avanvomeri e dei versoi degli aratri, dove lo sviluppo tecnologico ha riguardato la riduzione degli attriti tra l’attrezzo e il terreno, per diminuire la forza di trazione richiesta per dissodare il suolo. Tra le varie soluzioni, quelle che hanno riscosso un certo successo riguardano il rivestimento della superficie di scorrimento del versoio con polietilene o Teflon, oppure in alternativa la fabbricazione dell’intero versoio sempre in polietilene, spesso sostenuto da uno scheletro di rinforzo in acciaio.
Più in dettaglio, il Robalon sviluppato già cinquant’anni fa dall’austriaca Röchling Leripa Papertech è polietilene ad altissima densità molecolare (UHMW-PE), combinato con bisolfuro di molibdeno, leganti e stabilizzanti UV. Rispetto alle realizzazioni metalliche tradizionali, questo materiale plastico presenta un attrito ridotto e quindi minor usura, una bassa adesione sulla superficie a contatto con il terreno e, ovviamente, un peso inferiore (fino al 60% in meno), a parità di resistenza dinamica. Ciò lo rende quindi particolarmente adatto a lavorare in suoli collosi ed appiccicosi, dove la terra tende ad aderire al versoio. Non sorprende quindi che molti produttori abbiano a catalogo modelli con versoi costruiti (o ricoperti) con materiale plastico, ottenendo nella lavorazione un certo risparmio di combustibile e potendo mantenere velocità di lavoro leggermente superiori rispetto agli equivalenti aratri tradizionali.
Anche le protezioni della quasi totalità degli alberi cardanici sono in polietilene, che in questo caso ben si presta per la sua elasticità, risultando peraltro anche molto economico. Tuttavia, in relazione a questa specifica applicazione è un materiale che non presenta caratteristiche ottimali in relazione a vari attacchi, sia di shock meccanico che di tipo chimico, ma anche in relazione all’invecchiamento da raggi UV, che nel tempo provocano tagli, fessurazioni, deformazioni, imbrunimenti, crepe e sfarinamento di diverse parti della protezione, compromettendo l’efficacia della segregazione del grave pericolo rappresentato dall’albero cardanico in rotazione. Il polipropilene o il poliuretano possono migliorare la situazione, ma è indubbio che una protezione in lamiera d’acciaio, quantunque più costosa e meno flessibile, garantirebbe una durata decisamente più lunga.
Sempre il polietilene (PE), ma anche la vetroresina (PRFV, Poliestere Rinforzato con Fibra di Vetro) sono i materiali più comuni impiegati per la costruzione dei serbatoi della miscela sulle macchine irroratrici. Entrambi comportano numerose qualità positive e ovviamente alcune criticità, tali da far optare per l’una o l’altra soluzione in funzione delle esigenze. Il polietilene, evidenzia diversi vantaggi: buona resistenza agli urti, alla corrosione chimica (dovuta al contatto con acidi, alcali, alcool, benzina, soluzioni saline, ecc.), alle alte temperature (fino a 130 °C per il PE ad alta densità), buona leggerezza (0,9-0,95 kg/m³). Un ulteriore aspetto molto favorevole del polietilene nella costruzione dei serbatoi risiede nella possibilità di ottenere modelli con conformazioni anche molto elaborate mediante stampaggio rotazionale, con il quale si ottengono contenitori robusti, senza saldature, leggeri, monolitici e privi di tensioni interne.
In sostanza, in uno stampo in lamiera di acciaio sagomata e saldata, oppure in fusione di alluminio, viene caricata polvere polimerica, che viene riscaldata e fatta ruotare lungo uno o più assi, in modo che possa liquefarsi e aderire alle pareti dello stampo in modo omogeneo, assumendone la forma.
La vetroresina evidenzia un’elevata resistenza alla compressione, grazie alle resine plastiche, ma anche alla trazione, per la presenza di fibre di vetro. Inoltre, ha una limitata massa volumica, una valida inerzia all’aggressione della maggior parte delle sostanze chimiche e alla corrosione (anche di tipo elettrolitico), è stabile alle radiazioni UV e alle variazioni di temperatura. Infine, ha una vita utile piuttosto lunga. Se danneggiata, può essere facilmente riparata, ma a parità di capacità, il costo del serbatoio in vetroresina è superiore rispetto all’equivalente in polietilene.
Ceramica. Dal punto di vista chimico-fisico, il principale pregio della ceramica è l’elevata resistenza all’usura (sia per corrosione chimica che per attrito), conferita dalla sua tipica durezza. Bisogna però considerare una sua notevole fragilità, che mal si adatta ad impieghi che prevedono shock meccanici. In generale, si tratta di condizioni favorevoli per una sua proficua adozione nella costruzione ad esempio degli ugelli delle macchine irroratrici, in particolare delle punte di spruzzo. In tal caso, per una produzione di gocce di diametro costante nel tempo, è importante che il diametro del foro non subisca indesiderati incrementi, dovuti proprio all’usura.
Peraltro, altri materiali non ferrosi vengono comunemente impiegati per la fabbricazione degli ugelli: l’ottone, per punte di spruzzo a fessura e a specchio, e alcune materie plastiche (come ad esempio il cloruro di polivinile o il polipropilene) soprattutto per gli ugelli a fessura, più economici, ma con una limitata resistenza all’usura; l’acciaio inossidabile si pone invece in una condizione intermedia.
Calcestruzzo. Può sembrare piuttosto strano, ma uno dei più comuni materiali idonei per le costruzioni edilizie viene ormai da tempo impiegato anche per la fabbricazione delle zavorre dei trattori che, come noto, hanno il duplice scopo di aumentare la capacità di tiro della macchina, tramite un opportuno incremento del suo peso aderente e, se collocate in punti strategici del mezzo, di riequilibrare la distribuzione delle masse del complesso trattore-operatrice. In tal caso, in alternativa alla classica ghisa o alla magnetite, si impiegano zavorre monolitiche in calcestruzzo vibrato (o anche in fibrocemento) di varia conformazione, collocate a sbalzo davanti all’asse anteriore del trattore e quasi sempre di notevole massa (anche oltre 3.000 kg), tali da essere necessariamente gestite tramite il sollevatore anteriore. Il calcestruzzo è un materiale decisamente meno costoso della ghisa; alla sua relativa fragilità si ovvia con un’intelaiatura interna in profilati d’acciaio, che serve anche come struttura di aggancio all’attacco a 3 punti. Pur avendo una massa volumica 3 volte inferiore a quella della ghisa (2.400-2.600 contro 6.800-7.800 kg/m³ circa) il calcestruzzo rappresenta quindi una valida alternativa per migliorare le prestazioni in trazione dei trattori agricoli.