
Agricoltura rigenerativa, il ruolo della meccanizzazione
Non è più sufficiente mantenere inalterato l’attuale stato di salute del terreno agricolo, ma è urgente ricostituire il suo miglior equilibrio chimico, fisico e biologico, compromesso da decenni di intenso sfruttamento. Con un’attenzione particolare all’ambiente e alla resilienza climatica del nostro pianeta
Per diversi decenni, in parecchi areali di importanza mondiale alcune popolari specie cerealicole, in primis mais e riso, sono state coltivate in regime di monocoltura. Se per le sue particolarità di sviluppo, ovvero la crescita in sommersione per buona parte del suo ciclo, nel caso del riso tale scelta agronomica può essere giustificata, per ciò che concerne il mais da sempre la buona pratica consiglia di inserirne la coltivazione in una conveniente rotazione, che possa preservare l’equilibrio chimico, fisico e biologico del terreno. A causa della contestuale sparizione di fertilizzanti solidi di origine organica – in primis il letame – dovuta sostanzialmente alla cessazione dell’uso della paglia come materiale base della lettiera negli allevamenti zootecnici, l’apporto di sostanze nutritive per lo sviluppo delle colture si è spostato verso i concimi di sintesi e, quando disponibile, il refluo zootecnico sotto forma quasi esclusivamente liquida. Non ha peraltro inciso più di tanto l’avvento della frazione solida del digestato, cioè parte del materiale di risulta della fermentazione anaerobica per la produzione di biogas, a risolvere la carenza di sostanza organica nei terreni agrari, che ben presto in parecchi casi si sono trovati sotto la soglia critica del 2%, livello considerato un serio campanello d’allarme sul loro stato di salute.
L’agricoltura conservativa prima e soprattutto quella rigenerativa ora, sono proprio finalizzate a “curare” il suolo agrario, depauperato per molto tempo di quelle componenti che ne garantivano il delicato equilibrio, integrando tale scopo con altri importanti obiettivi, orientati sostanzialmente alla protezione dell’ambiente e alla sua resilienza nei confronti del cambiamento climatico.
Si è trattato quindi di mettere in atto una numerosa serie di attività colturali, in parte riscoprendo e rilanciando alla luce del progresso tecnico quelle già note da tempo, e in parte introducendo nuove soluzioni, non dimenticando comunque di ottimizzare la produttività, senza la quale non potrebbe continuare ad esistere una pratica agricola che assicuri un conveniente reddito.
A partire quindi dalle rotazioni, pratiche come la consociazione, il sovescio, le cover crop sono ormai entrate a pieno titolo nei piani colturali di quelle aziende agricole che sono attente non solo alla conservazione, ma soprattutto al miglioramento della fertilità dei loro terreni, e hanno anche un occhio di riguardo per il completo ecosistema, in grado di influire in modo significativo sulla salute dell’intero nostro pianeta. Questa nota, unitamente ad altre due pubblicate su questo numero di Mondo Macchina, vuole proporre una breve panoramica sulle più recenti soluzioni di meccanizzazione disponibili per una coltivazione moderna e rispettosa di questi nuovi canoni agronomici.
La rotazione colturale. Definita anche “avvicendamento”, oltre al miglioramento della fertilità e della struttura fisica del suolo, assicura un più razionale sfruttamento dell’acqua e degli elementi nutritivi minerali; previene la diffusione dei patogeni e delle infestanti; contribuisce a controllare l'erosione. La rotazione colturale può essere praticata a ciclo chiuso, ovvero secondo uno schema predefinito che si ripete in genere ogni 2-5 anni, oppure con un avvicendamento libero che, mantenendo inalterati i principi base, segue schemi applicati di volta in volta in funzione delle esigenze organizzative ed economiche dell'azienda agricola.
In questa prospettiva, le colture si possono classificare come preparatrici, miglioratrici e depauperanti. Come peraltro suggerisce il termine, quelle preparatrici sono in grado di fornire alla coltura successiva un certo quantitativo di elementi necessari al loro sviluppo: appartengono a questa categoria ad esempio la bietola, il girasole, il pomodoro, la patata, il tabacco. Le colture miglioratrici sono in grado di attivare il ripristino delle più corrette condizioni fisiche, chimiche e biologiche del terreno: garantiscono questa azione le graminacee da prato, le leguminose foraggere e da granella. Infine, le colture depauperanti sono quelle che invece comportano un bilancio negativo rispetto al terreno: appartengono a questa categoria il frumento (tenero e duro), l'orzo, il triticale, il riso, la segale, l'avena e il loietto.
Nella rotazione devono quindi essere alternate armonicamente colture appartenenti a questi tre gruppi, con l’aggiunta di altre pratiche come il prato, sia come soluzione set-aside (terreno a riposo) oppure finalizzato alla produzione di foraggio, che contribuisce a migliorare il bilancio idrico e ad aumentare la fertilità nei terreni poveri. Se nella monocoltura la meccanizzazione è sostanzialmente univoca, nel senso che vengono impiegate sempre le stesse macchine, nella gran maggioranza delle rotazioni si avvicendano colture che per una o più lavorazioni richiedono tipologie diverse di mezzi. In effetti, alcuni macchinari, come ad esempio quelli per la preparazione primaria e secondaria del terreno, possono essere impiegati con profitto per quasi tutte le colture comprese nella rotazione, tenendo ben presente però le moderne tendenze che portano alla riduzione dell’intensità di lavorazione, a favore della minima o addirittura della non lavorazione. Viceversa, altre attrezzature sono più specifiche per soddisfare appieno le esigenze agronomiche: ad esempio, considerando anche solo le colture cerealicole, la semina a file si differenzia se si tratta di mettere a dimora frumento e orzo oppure mais; in quest’ultimo caso la lavorazione deve essere “di precisione”, con modelli che si differenziano significativamente dalle seminatrici universali.
Maggiori necessità di macchinario si evidenziano poi se nella rotazione è inserito il prato, finalizzato alla produzione di foraggi, dato che le attrezzature per la fienagione sono dedicate specificamente per quella finalità. Anche la raccolta dei prodotti richiede attenzione: per i cereali e altre colture, la mietitrebbiatrice è la macchina di elezione, ma deve essere allestita con testate dedicate, tenendo conto di alcune particolarità, come ad esempio la barra falciante a sezioni flessibili, da usare per la soia.
La consociazione. Una pratica che può essere considerata una radicalizzazione della rotazione colturale è la consociazione, ovvero la coltivazione contemporanea (per l’intero ciclo colturale o per una parte di esso) di specie differenti nello stesso appezzamento, che auspicabilmente possano avere importanti effetti sinergici tra loro. Si tratta di una soluzione agronomica ben nota nell’ambito orticolo hobbistico, ma che ha visto una recente riscoperta anche a livello professionale.
Il caso forse maggiormente conosciuto è la consociazione erbacea cereali-legumi, i primi competitivi nell’assunzione di nutrienti minerali dal terreno e contro le infestanti, mentre gli altri ben noti per l’azoto-fissazione biologica, attuata a livello dei noduli radicali dai batteri simbionti del genere Rhizobium.
Un fattore da rimarcare in questo tipo di consociazione è il sostegno strutturale assicurato dalle graminacee che, grazie al loro comportamento assurgente sono in grado di ridurre le perdite di raccolta delle leguminose, causate sostanzialmente dal loro portamento prostrato e facilmente allettabile. Un’ulteriore opzione è la consociazione mista, ovvero l’abbinamento di una coltura arborea e una erbacea. Oltre a costituire una barriera frangivento, la specie arborea garantisce un’ulteriore fonte di reddito su quelle aree non pienamente coltivabili per la coltura erbacea, per esempio a causa di pendenze eccessive. Le combinazioni più popolari in tale contesto sono senza dubbio la vite e l’ulivo, associati a foraggere. Sono noti anche casi di consociazione tra due colture arboree, come l’olivo e il limone; in questo caso le piante secolari di olivo, con la loro chioma espansa, proteggono le piante di limone dal vento riducendo il rischio che si diffonda il mal secco. Inoltre, il parziale ombreggiamento riduce le scottature e crea un clima che diminuisce il consumo idrico del limone. Le consociazioni possono poi essere permanenti, se le colture insistono con continuità sul medesimo terreno, oppure temporanee, se la compresenza include solo parte del loro ciclo vegetativo.
In diversi casi la meccanizzazione delle consociazioni richiede attrezzature specializzate per le modalità di intervento, che devono comunque essere rispettose delle esigenze di entrambe le colture; si tratta di un’eventualità non scontata, specie per le combinazioni esclusivamente erbacee. Da questo punto di vista, la riduzione dell’intensità di lavorazione del terreno, sino alla soluzione che consente il minimo disturbo del suolo, ovvero la semina diretta, favorisce la convivenza delle coltivazioni.
Il biochar
È carbone vegetale, che si ottiene dalla pirolisi lenta (detta anche,appunto, “carbonizzazione”) di diversi tipi di biomassa, soprattuttoa partire dai sottoprodotti agricoli come potature, stoppie di maiso grano, lolla di riso, fogliame secco, ecc. Si tratta di un processodi combustione che avviene in assenza o in limitata presenza di ossigeno, a pressione atmosferica e temperature di 400-700 °C, incui contestualmente viene prodotto il syngas (che ha potere calorifico pari al GPL) –destinato alla produzione di calore mediantesuccessiva combustione –e una frazione liquida, il bio-oil, costituito sostanzialmente da acqua, composti fenolici e zuccheri anidri.
Il biochar ha trovato di recente numerose applicazioni: per il trattamento delle acque, grazie alla sua notevole porosità, che lo rendono efficace nel filtrare e assorbire metalli pesanti, organismi patogeni e contaminanti organici o inorganici potenzialmente tossici; in zootecnia, quale additivo alimentare, in grado di incrementare le rese metaboliche, favorendo la digestione e l’assorbimento dei nutrienti, ma anche per la gestione dei reflui animali, riducendo gli odori e prevenendo il deflusso dei liquami; nell’industriacementizia, come additivo che garantisce maggiore stabilità chimica, bassa conduttività e limitata infiammabilità.
Non c’è dubbio però che è nelle coltivazioni agricole che il biocharha riscosso il maggior successo. Se incorporato nel suolo agrario,evidenzia infatti un’efficace azione ammendante: la sua elevataporosità aumenta la ritenzione idrica e quella degli elementi nutritivi, che in tal modo rimangono più a lungo disponibili per le colture. Più in dettaglio, esso è in grado di: migliorare la fertilità delsuolo, valorizzando residui e sottoprodotti (soprattutto di originevegetale) di varia natura; incrementare il tasso di ritenzione idricae di macro- e micro-elementi nutritivi; ridurre l'acidità del suolo, aumentandone il pH; creare un ambiente favorevole alla proliferazione della biomassa microbica del suolo; favorire il processo difissazione dell'azoto; stoccare carbonio nel suolo, anche per lunghi periodi. Il cosiddetto “carbon removal” è infatti il principale valore aggiunto del biochar nella sua funzione di ammendante, perchè ha la capacità di mantenere fissate nel suolo grandi quantitàdi carbonio per periodi molto lunghi, di parecchie decine di anni.Infatti, durante la pirolisi una quota significativa di carbonio di origine vegetale (fotosintetizzato a partire da CO2atmosferica) rimanelegata nel biochar. Sebbene una frazione di questo carbonio siapresente in forma inorganica e viene persa in poche settimane oppure è lentamente mineralizzata nel corso degli anni, ben il 90%risulta essere in forma stabile, e permane nel suolo per lunghissimo tempo. Questa caratteristica ha fatto sì che il Biochar fosseconsiderato alla base delle più promettenti NET (Negative Emission Technologies), ovvero considerata come “carbon neutral” oaddirittura “carbon negative”, quindi adatta alla mitigazione delcambiamento climatico.